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Idea araba: trasformare un toro in un cavallino

nostro inviato a Monza

Oggi, tanto più qui a Monza dove la Toro Rosso, nel 2008, vinse il suo primo e unico Gp, primo ma non unico di Sebastian Vettel, il team satellite della Red Bull, team austriaco con il cuore italiano, ha tutti gli occhi puntati addosso. Questione di soldi, tanti, soldi provenienti da Abu Dhabi, soldi dietro i quali c’è un signore, meglio dire sceicco, che ha fatto dello sport il suo pallino. In ogni caso, di Toro Rosso si parla parecchio perché siamo o si potrebbe essere vicini alla svolta: non più solo F1 che apre ai circuiti del Medio Oriente, non più F1 che si concede ben felice a sponsorizzazioni milionarie, non più team che cedono ampie fette azionarie a soci del Golfo. No. Stavolta sembra che i tempi siano maturi per una svolta epocale: l’arrivo in F1 di un team arabo. In questi giorni la Toro Rosso ha infatti ufficializzato l’accordo di sponsorizzazione con la compagnia petrolifera spagnola Cepsa, gigante controllato però dalla International Petroleum Investment Company, meglio nota agli addetti ai lavori sotto l’acronimo Ipic, mega gigante finanziario del governo di Abu Dhabi. Val la pena aggiungere che il presidente del suddetto acronimo è lo sceicco Mansour Bin Zayed al Nayhan che tradotto in inglese si legge mister Manchester, ovvero l’uomo che ha fatto del City il club più ricco del mondo.
Di certo c’è ora che i logo della Cepsa sono ben visibili sulle monoposto che sfrecciano qui a Monza, di certo c’è che nel quartier generale Red Bull, nel senso dell’azienda di patron Dietrich Mateschitz, si valutano con attenzione queste novità. Da tempo, infatti, la Red Bull – proprietaria della Toro Rosso - ha fatto capire di non disdegnare l’eventuale vendita della squadra satellite.
Sul tema, Giorgio Ascanelli, direttore tecnico della squadra italo-austriaca con sede a Faenza, è prima ironico e poi evasivo il giusto. «Si dice che il mio team potrebbe spostarsi ad Abu Dhabi… fanno una buona pasta ad Abu Dhabi?». E poi: «Abbiamo nuovi sponsor ma è indubbio che la Toro Rosso resta di Mateschitz… più soldi fanno comodo, ma so anche che da due anni stiamo espandendo la squadra a Faenza… Se poi un giorno dovessimo spostarci ad Abu Dhabi, bene, si vedrà… Comunque, in Italia ora c’è più spazio per la F1…». Cioè: se dovesse mai essere, meglio restare a Faenza.
Se oggi è lo sceicco megabilionario a far sognare la Toro Rosso e i suoi ragazzi che lavorano e s’ingegnano a Faenza, in principio fu Ali Saudia a far sognare un manipolo di meccanici inglesi. Era la seconda metà degli anni Settanta e con una felice intuizione Frank Williams si rivolse agli arabi. Il team principal anglosassone fece della Saudia il suo title sponsor, accettando volentieri di non far brindare a champagne i propri piloti per rispetto della religione islamica. «Tanto - pensò - i miei piloti non hanno mai vinto nulla per cui il problema al momento non si pone». Invece ben presto Clay Ragazzoni, pilota Williams, brindò sul podio della sua ultima vittoria con un succo di ananas. La collaborazione con la Saudia durò fino al 1983, comprensiva di due titoli mondiali. Lo sponsor arabo fu affiancato da altre due società del Golfo. La prima del saudita Mansour Ojjeh, patron della Tag. La seconda, è doveroso ricordarla vista anche la tragica ricorrenza di domani 11 settembre, era la società del padre di Osama Bin Laden, il più grande costruttore arabo. Sono ancora in circolazione alcune foto della Williams con la scritta Bin Laden sull’abitacolo.
Del resto, benché sempre sport ricchissimo, la F1 ha visto in questi anni ridimensionare programmi e investimenti. Si pensi – come di recente riportato dalla Gazzetta – che i budget delle squadre sono calati fra il 30 e il 50 per cento rispetto al passato e che i piccoli team spendono intorno ai 70 milioni, i medi 120-150 e i grandi 400 l’anno.

Per mister Manchester sarebbe un gioco da ragazzi trasformare un toro in un cavallino arabo.

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