Iella, ora in città si usa il «cornetto» del Perù

Mai chiedere all’amico senegalese di cenare nel salone con cucina a vista. Evitare di fischiettare facendo visita a un marocchino

Anno 2030: i milanesi saranno diventati quasi tutti superstiziosi e tra le tante scaramanzie in loro dotazione non vorranno più andare dal barbiere dopo il tramonto, eviteranno le stanze d’albergo contrassegnate dal numero quattro e si rifiuteranno di mangiare nella stessa stanza in cui si è cucinato, decretando la fine dell’appartamentino con cucina a vista. Possibile? Certo, se è vero che Milano è una spugna formidabile quando si tratta di assorbire e metabolizzare le diversità. Questo fenomeno è accentuato dal numero sempre più alto di stranieri che sbarcano tra di noi: il decimo rapporto dell’Osservatorio provinciale di Milano svela che in otto anni - dal 1998 al 2006 - il numero di immigrati regolari in città è passato da 126 mila a 389 mila unità. Asiatici e latinoamericani fanno la parte del leone. A ruota si posizionano nordafricani e immigrati dall’Est europeo: tutta gente che butta nel crogiolo dell’integrazione non solo la propria forza-lavoro ma anche le superstizioni dei Paesi d’origine. Qualche esempio?
Per Merci che è una 45enne filippina, l’etnia che oggi conta a Milano più di 33 mila immigrati, fare le pulizie di casa quando è sera porta sfortuna. E anche tagliarsi unghie o capelli dopo il tramonto.
Invece i cinesi di Milano, che sono 17 mila 500, stravedono per il numero otto: «Siamo gente molto superstiziosa - dice Pei Ling, commerciante all’ingrosso - e una credenza molto popolare in Cina è legata al numero otto che per noi significa opulenza: avere un otto nella targa dell’auto, nel numero di telefono o nel numero di casa è considerato un grande privilegio della sorte». Non così per il numero quattro che i discendenti di Confucio ritengono portatore di iella.
Dalla Grande muraglia alle Ande. La comunità di latinoamericani più consistente in città è quella peruviana con 18 mila 700 abitanti. I peruviani credono molto agli influssi benefici astrali che sarebbe possibile convogliare in casa propria grazie ai servigi di un Ekeko. Si tratta di un pupazzetto in terracotta di piccole dimensioni vestito con tanto di poncho e copricapo andino munito di fessure in cui infilare banconote, sigarette e altri simboli propiziatori: « Senza di lui- dice Juan che fa il facchino in Stazione centrale - salute, amore e denaro rimangono aspirazioni irraggiungibili». La stessa superstizione è condivisa anche dai circa 17mila ecuadoregni residenti a Milano che hanno un’altra ben strana credenza: mai fare sesso dentro un’automobile perché attira il malocchio. Tanti scongiuri anche per i nordafricani che rappresentano il terzo gruppo più numeroso a Milano. «Mai fischiare dentro casa - dice Kerchaoui, 32 anni, originario di Casablanca, in Marocco - perché non ci entrerà più nessuno. E mai irritare i Jinn - prosegue - che sono spiriti invisibili un po’ permalosi. Al punto tale che anche fare il bagno in mare di notte li irrita moltissimo: meglio evitare».
I senegalesi invece credono che meni gramo mangiare nello stesso luogo in cui si è cucinato. Inoltre ritengono l’invidia una calamità in grado di rovinare qualsiasi piano: dunque meglio stare abbottonati anziché condividere con amici e parenti programmi e progetti.
Ma è l’Est europeo la culla delle superstizioni più originali: gli albanesi fanno ancora fatica a guardare in faccia i possessori di occhi chiari perché secondo loro portano sfortuna. «Se ti si spegne la sigaretta senza un motivo - aggiunge Jon, 24 anni, albanese di Shkoder - vuol dire che la fidanzata ti tradisce. Se invece ricevi una telefonata mentre stai mangiando, probabilmente sei molto amato dalla suocera». I Romeni attribuiscono al battito involontario della palpebra sinistra l’imminente arrivo di una brutta notizia.

Invece in Polonia - svela Jozef, 45 anni, portiere d’albergo in un grande complesso di Milano - una nota scaramanzia impone di non lasciare aperte finestre, porte, ante in presenza di una donna incinta: potrebbe rischiare un parto prematuro.

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