II Papa ad Auschwitz: «Dio, perché hai taciuto?»

nostro inviato

ad Auschwitz
«Perché Signore hai taciuto?». Benedetto XVI, il Papa tedesco successore di un Papa polacco, col volto tirato attraversa lentamente il cancello di Auschwitz lasciandosi alle spalle la scritta Arbeit Macht Frei (Il lavoro rende liberi), che i nazisti avevano beffardamente apposto all’ingresso del luogo di martirio più famoso dell’umanità, dove sono stati sterminati «come pecore da macello» più di un milione di ebrei, 150mila polacchi, 23mila rom, 15mila prigionieri di guerra sovietici. «Perché Signore hai potuto tollerare tutto questo?», domanda Ratzinger, chiedendogli conto di quel silenzio, gridandogli «di non permettere mai più una simile cosa», domandandogli «ad alta voce perdono e riconciliazione».
Il viaggio di quattro giorni che Benedetto XVI ha compiuto in Polonia, dopo la Messa celebrata nel parco di Blonie davanti a una folla oceanica, si conclude nel pomeriggio con la tappa più attesa. Una tappa che il Papa ha voluto personalmente inserire. Così come ha lavorato fino all’ultimo al testo del discorso, rafforzandolo con la menzione esplicita della Shoah nel paragrafo dedicato al sistematico tentativo di annientare l’intero popolo ebraico.
Davanti agli ex prigionieri scampati al massacro, qualcuno con la kippà bianca e gialla, i colori del Vaticano, dopo aver sostato nella cella dove morì san Massimiliano Kolbe e dopo aver pregato al Monumento alle Vittime di Birkenau, dice che è quasi impossibile, «difficile e opprimente» prendere la parola in questo «luogo d’orrore che non ha confronti nella storia», soprattutto per un Papa che proviene dalla Germania.
Ascolta in silenzio la lettura del Salmo 22, le preghiere in varie lingue, il canto del lutto del Kaddish. Accende un cero per ricordare «i volti delle singole persone» che qui hanno perso la vita, sterminate in modo barbaro.
«Non potevo non venire qui, dovevo venire», dice Benedetto XVI, come figlio «di quel popolo sul quale un gruppo di criminali raggiunse il potere mediante promesse bugiarde», come figlio di quel popolo «usato e abusato come strumento della smania di distruzione e di dominio» dei nazisti. Il Papa ha scelto di non entrare nel merito delle responsabilità del popolo tedesco, anche se quell’aggettivo «usato» può significare che molti dei suoi connazionali si sono lasciati «usare» da quel regime instaurato dopo libere elezioni. Ratzinger ricorda quindi le sue precedenti visite, da cardinale, nel 1979, durante il viaggio di Wojtyla, e poi nel 1980. «Mi trovo qui per implorare la grazia della riconciliazione» da Dio, dalle persone che hanno sofferto ma anche «per tutti coloro che, in quest’ora della nostra storia, soffrono in modo nuovo sotto il potere dell’odio e sotto la violenza fomentata dall’odio».
Non è solo il ricordo di qualcosa che appartiene alla storia: «Il luogo in cui ci troviamo è un luogo della memoria, che nello stesso tempo è luogo della Shoah - aggiunge –. Il passato non è mai soltanto passato. Esso riguarda noi». Alla domanda gridata a Dio, «perché hai taciuto?», il Papa non vuole dare risposta, perché «noi ci sbagliamo se vogliamo farci giudici di Dio e della storia». Ma quella domanda è attuale oggi più che mai. «Emettiamo questo grido davanti a Dio – aggiunge Benedetto XVI – proprio in questa nostra ora presente, nella quale incombono nuove sventure, nella quale sembrano emergere nuovamente dai cuori degli uomini tutte le forze oscure». Il dramma di Auschwitz ci riguarda oggi perché, spiega il Papa, «forze oscure» provocano da una parte «l’abuso del nome di Dio per la giustificazione di una violenza cieca contro persone innocenti»; dall’altra «il cinismo che non conosce Dio e schernisce la fede in Lui». Ha in mente il terrorismo fondamentalista di radice islamica, Papa Ratzinger, ma anche il rifiuto di Dio in nome di «una ragione falsa» che finisce per provocare violenza contro l’uomo stesso.
Dopo aver scorso con lo sguardo le tante lapidi che attorniano il monumento, Benedetto XVI ne ricorda alcune. Innanzitutto quella per il popolo ebraico, che «i potentati del Terzo Reich volevano schiacciare nella sua totalità». Annientandolo, essi «intendevano uccidere quel Dio che parlando sul Sinai stabilì i criteri orientativi dell’umanità validi in eterno». Questo popolo, aggiunge, «semplicemente con la sua esistenza, costituisce una testimonianza di quel Dio che ha parlato all’uomo» e distruggerlo significava uccidere quel Dio per lasciare soltanto ai «forti che avevano saputo impadronirsi del mondo» il dominio incondizionato. Ma con la distruzione di Israele, spiega ancora il Papa, i nazisti volevano «in fin dei conti, strappare anche la radice su cui si basa la fede cristiana, sostituendola definitivamente con la fede fatta da sé, la fede nel dominio dell’uomo, del forte».
Benedetto XVI cita quindi la lapide del popolo polacco, che «veniva annoverato» dai nazisti tra «gli elementi inutili della storia universale»; quindi ricorda la lapide dei Sinti e dei Rom, degli zingari migranti, la cui vita, secondo i carnefici «era indegna di essere vissuta». Il Papa cita pure i soldati sovietici che «liberando i popoli da una dittatura, dovevano servire anche a sottomettere gli stessi popoli ad una nuova dittatura, quella di Stalin e dell’ideologia comunista». Ma Ratzinger afferma di aver sentito «come intimo dovere» di fermarsi anche davanti alla lapide scritta nella sua lingua madre, perché da lì emerge il volto di santa Edith Stein, suora carmelitana, «scomparsa nell’orrore della notte del campo di concentramento», che «come cristiana ed ebrea» accettò di morire con il suo popolo. C’erano, dunque, anche in Germania, coloro che «non si sono sottomessi al potere del male e ora ci stanno davanti come luci in una notte buia».


Commosso, nel luogo dove termina il binario sul quale viaggiavano i vagoni piombati con le vittime designate del massacro, Benedetto XVI ha concluso ricordando che questi morti «scuotono la nostra memoria» e «il nostro cuore», «non vogliono provocare in noi l’odio», ma «suscitare in noi il coraggio del bene e la resistenza al male». A quel male che non appartiene solo al passato ma riemerge oggi nell’ora in cui «incombono nuove sventure».

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