Tutti - il governo italiano con più cautela - hanno commentato favorevolmente l'accordo raggiunto alla fine della scorsa settimana tra Unione Europea e Cina: la seconda si impegna ad autolimitare per due anni l'esportazione di tessili verso l'Europa. Ma siamo proprio sicuri che tale tregua competitiva sia vantaggiosa per l'Italia? E, in generale, che il metodo del negoziato morbido adottato dalla Commissione Ue sia quello giusto per domare la concorrenza socialmente sleale della Cina?
Penso sia ragionevole ipotizzare che il 30% dei nostri produttori sarà in grado, in due anni, di collocarsi in una fascia di mercato meno esposta alla concorrenza per puro costo, per esempio quella dei marchi di alta qualità. Ma temo che il 70% - perché fatto di imprese troppo piccole o con tecnologia poco evoluta o con organizzazioni poco flessibili, ecc. - non ce la farà. Anche se fosse di meno, comunque l'accordo ha il solo significato di rinviare la morte, dal 2008 in poi, di buona parte di un settore che impiega più di seicentomila addetti. E, pur comprendendo che la morte domani è meglio di quella oggi e che nel frattempo si possa fare qualcosa, segnalo che la tanto sbandierata - dalla Commissione Ue - tregua settoriale ottenuta da Pechino sembra una tragica presa in giro.
Più evidente se si valuta l'impatto della concorrenza sleale cinese sul sistema complessivo italiano. I cinesi, infatti, continueranno a pagare i loro lavoratori circa cento dollari al mese, senza alcuna assistenza e garanzia. Come può un'impresa, anche evolutissima, che produce cose da loro imitabili competere se paga duemila euro per addetto e una montagna di tasse dirette ed indirette che finanziano un modello di garanzie sociali? Non è possibile. L'Italia dovrà ridurre i propri costi fiscali e sistemici (energia, trasporti, ecc.). Poi dovrà, in ogni caso, rinunciare ad alcuni settori produttivi raggiunti dalla concorrenza imbattibile delle nuove tigri globali e sostituirli con altri più futurizzanti. Ma dopo averlo fatto, nel migliore dei casi in un decennio, resterà un differenziale di competitività negativa con la Cina, se questa resterà con costi sistemici inalterati, che ci massacrerà comunque.
Da un lato, è bene lasciare spazio ai Paesi in via di sviluppo per trasformare la loro povertà in competitività globale che li renda ricchi rapidamente e capaci, poi, di importare le merci più costose e raffinate prodotte dai Paesi maturi. Tale meccanismo di globalizzazione, alla fine, ci renderà tutti più ricchi. Ma, qui il punto, solo se sarà governato: i Paesi ad alti costi possono cedere temporaneamente della ricchezza a quelli emergenti, ma non in modi tali da esserne svuotati. E se alla Cina si permette di accedere al mercato globale senza sviluppare progressivamente un modello sociale che ne alzi i costi facendola convergere, nel tempo, con quello dei Paesi ricchi e democratici man mano che si sviluppa, allora crescerà al costo della nostra sparizione e sarà destinata all'instabilità per mancanza di garanzie, quindi di consenso, nella società.
Il metodo giusto è quello di forzare la Cina ed altri simili a democratizzarsi e welfarizzarsi, gradualmente, pena la sua esclusione dal commercio internazionale. Ma la Ue non ha negoziato con tale metodo saggiamente condizionante, anzi. Perché? Francia, Germania e Regno Unito, per loro struttura industriale, sono meno vulnerabili dell'Italia all'export cinese ed hanno l'interesse di vendere a Pechino grandi sistemi (treni, metropolitane, aerei, ecc.). Così, per evitare ritorsioni ed allo stesso tempo dare un contentino illusorio all'Italia ed ai «piccoli» sparpagliati in Europa, hanno chiesto una tregua, ma senza toccare il vero problema.
Non perdiamo tempo a piangere sulla fesseria di far rappresentare i nostri interessi da una Ue dominata da quelli diversi dai nostri. Chiediamoci, invece, se c'è una possibilità per rimediare nel futuro.
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