Imitò un cane e poi toccò il cielo con un dito

La sua esibizione durò solo 108 minuti, ma fece il giro del mondo. Nessuno era riuscito a imitare con tanta efficacia la cagnetta come aveva fatto il Nostro quel 12 aprile: due gocce d’acqua. Così, tra il breakfast e l’espresso di metà mattina, egli divenne l’uomo più celebre del pianeta. Ciò che particolarmente colpì i concorrenti fu l’apparente facilità dell’impresa alla quale, senza successo, si erano dati anima e corpo per anni. Per consolarsi, pensarono che avesse usato qualche trucco. Ma poi, smaltita la rabbia, si inchinarono alla superiorità dell’avversario.
Il Nostro, intanto, si godeva la sua fama meritata. I Grandi della Terra se lo contesero. In poche settimane, ricevette gli onori di nove Paesi in tre continenti. Lo volle ricevere, a Buckingham Palace, la regina Elisabetta II che gli conferì uno degli innumerevoli ordini inglesi. Lo accolse a braccia aperte Fidel Castro, da tre anni dittatore all’Avana, e gli appioppò un entusiastico discorso di quattro ore. Il segretario generale del Pcus e presidente dell’Urss, Nikita Kruscev, lo pretese accanto a sé sul palco d’onore del Mausoleo di Lenin durante la sfilata del primo maggio. Atene e Sofia gli dettero la cittadinanza onoraria. Decine di teatri di tutto il globo cambiarono nome per prendere il suo. Altrettanto fecero 24 città, innumerevoli scuole, club sportivi. Strade gli furono intestate di qua e di là dell’Oceano Atlantico. Si giunse al punto di stipulare un accordo internazionale per battezzare col suo nome un cratere lunare del diametro di 256 chilometri.
A questa gara d’incensi partecipò anche l’Italia, che non fu seconda a nessuno per magnificenza. Anzi, è stato proprio il nostro Paese a offrirgli l’omaggio che egli gradì più di tutti: il bacio di Gina Lollobrigida. Il giornali dell’intero orbe terracqueo pubblicarono la foto della diva, allora splendida trentacinquenne in décolleté, che allunga il collo e imprime le labbra sensuali sulla guancia del festeggiato, mentre gli sfiora carezzevole entrambe le mani. Fosse l’effetto di questa speciale effusione o l’euforia della notorietà, sta di fatto che il Nostro perse un po’ la testa durante il tour trionfale. Stando ai pettegolezzi dell’epoca, si sarebbe concesso distrazioni con vampirone curvilinee delle più disparate nazionalità, festini peccaminosi e, al motto «Paese che vai, sbornia che trovi», pantagrueliche bevute di uzo, vodka, rhum e whisky. La spontanea cordialità dell’uomo e la simpatia che suscitava ne fecero in breve un personaggio del jet set, ruolo che pareva calzargli a pennello. Quando si pensava già che, nell’eccitazione, non dovesse più rientrare tra le mura domestiche, Valentina, la moglie, piombò nella suite che gli era stata riservata. Donna graziosa, ma ferma, lo convinse all’istante a fare i bagagli e adempiere i doveri di marito e padre delle loro due figliolette. Il ventisettenne, che al fondo era un bonaccione, seguì docilmente la consorte, voltando le spalle alle baldorie.
Le umili origini del Nostro spiegano da sole la breve sbandata seguita al successo. Era nato in un villaggio distante 200 km dalla capitale, da padre carpentiere e madre contadina. Buona memoria e discreto negli studi, conseguì prima l’attestato di fonditore, poi un diploma di tecnico. Ma aveva la passione per il volo, che era quella collettiva dei ragazzini della sua età, almeno dalla parti dove abitava lui. L’avevano maturata durante la guerra, ammirando i volteggi degli aviatori che non davano requie alle truppe di occupazione naziste. Fu così che, coi primi soldi, prese il brevetto all’aeroclub e, giunto il momento del servizio militare, chiese di farlo in aviazione. Ma la commissione medica gli rifiutò l’arruolamento per difetto di altezza. Non superava infatti l’1,65. Una statura idonea per la fanteria, ma insufficiente a vestire l’uniforme dell’aviatore, almeno per come erano configurati allora gli aerei. Il Nostro non si dette per vinto e, a furia di insistenze, riuscì a farsi ammettere. Convinse i superiori presentandosi al successivo esame con un cuscino. Lo mise sul seggiolino dell’aereo, ci si sedette sopra e mostrò alla commissione che arrivava perfettamente agli strumenti di bordo.
Già celebre e col grado di maggiore, volle diventare pilota collaudatore. Decollò con l’istruttore per un tirocinio di 30 minuti. Ne erano trascorsi 12 quando annunciò alla torre di controllo che rientrava alla base. Poi, più nulla. La carcassa del prototipo e i due corpi dilaniati furono trovati poco dopo. La breve vita felice del Nostro si era conclusa a 34 anni.
L’inchiesta stabilì che l’aereo era precipitato a vite, ma sulle cause dell’incidente, solo ipotesi. Si parlò di un fulmine, di uno sbalzo di pressione, di turbolenze provocate dal bang di un aereo supersonico, di infarto, perfino di ebbrezza alcolica. Insomma, niente di concreto.

Le conclusioni furono però edificanti: i due avevano rinunciato a salvarsi col paracadute per mantenere un qualche controllo sull’aereo e evitare che finisse su una scuola vicina. Una versione eroica, ma sfornita di prove. Giusto omaggio postumo a una gloria della Nazione.
Chi era?

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