Gli Incognito tornano all’Alcatraz Un’ondata di sound travolgenti

Il chitarrista Jean Paul Munick fa rivivere il «brit funk»

Antonio Lodetti

Erano da qualche anno in una sorta di limbo musicale. Figli della breve stagione del «Brit funk», dopo l’esordio scomparvero per una decina d’anni, rinascendo con la moda del Jazz funk che ruota intorno all’etichetta Talkin’ Loud di Gilles Peterson. Poi di nuovo il silenzio e ora un’inattesa esplosione per gli Incognito del chitarrista e autore Jean Paul Munick, in arte Bluey. Tre dischi in pochi mesi (Adventures In Black Sunshine, il doppio antologico Let the Music Play con l’inedito singolo Liste To the Music, e il nuovissimo Eleven uscito in questi giorni), una acclamata tournée la scorsa primavera (con sei doppi concerti applauditissimi al Blue Note) e ora il ritorno, stasera all’Alcatraz.
Una nuova ondata di popolarità per i cosiddetti pionieri dell’acid jazz, con un suono che non ha nulla di nuovo ma che intriga con le sue sfumature colorite, ritmatissime, fatte di un cocktail vibrante che unisce disco (tanta), funky (quanto basta), soul (per rimanere ancorati alle radici ) e jazz (un pizzico come ingrediente finale).
Impossibile resistere al loro sound trascinante; una band ispirata che, in concerto, passa da atmosfere ballabili a ballate lente, da aperture orchestrali a venture rockeggianti. Un pugno di cantanti, maschi e femmine, dalle voci potenti e insinuanti (Maysa Leak, Chyna, Jocelyn Brown, l’ex Young Disciples Joy Malcolm) e su tutto la chitarra di Bluey, scombiccherato caporchestra nato a Trinidad ma inglese d’azione, che si diverte ora a citare Stevie Wonder ora a imitare Jimi Hendrix.
«Spero che la musica degli Incognito mandi sempre un messaggio positivo - racconta Bluey per spiegare lo spirito della band - positivo ma non semplicistico o commerciale. Le nostre canzoni non passano di moda come una vecchia Citroën: non hanno età e non perdono mai il groove, il gusto del ritmo. Certo servono per ballare, ma spero che aiutino a sognare e soprattutto a cercare un mondo migliore».
Nel background di Bluey c’è una lista eterogenea di fonti d’ispirazione. Dal jazz di Charlie Parker al soul da battaglia degli Earth Wind & Fire, dalle ballate di Otis Redding alla chitarra visionaria di Carlos Santana passando per la poetica di Marvin Gaye («il mio album preferito di tutti i tempi è il suo What’s goin’ on», sottolinea Bluey).
Lui poi cerca di fare una sintesi sonora di tutti questi stili, semplificandoli, rendendoli semplici, cantabili e orecchiabili, giocando astutamente con ritmo e melodia.
Nascono così dalla loro storia album come Tribes Vibes and Scribes (il loro primo disco di grande successo nel 1992).


Nello stesso solco si inserisce Eleven, lavoro patinato, con ricchi arrangiamenti e orchestrazioni, una sapiente alternanza di brani lenti e scatenati che stasera si mischieranno con successi come Let the Music Play, Tribal Vibes, Always There e con la loro versione del classico di Stevie Wonder Don’t you worry ’bout a thing. Una festa per i fan: si prevede un assalto all’Alcatraz.

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