Controcultura

Indagine sulla Christie scomparsa senza indizi

Indipendente, ostinata, dominante: la grande giallista volle tenere per sé una verità scomoda

A un certo punto, intorno ai settantacinque anni, decide di «mettere un punto». An Autobiography (in italiano La mia vita, Mondadori) le è costata tre lustri di lavoro e, anche in questa opera, Agatha Christie (1890-1976) non lesina quella attenzione ai dettagli che ha sempre avuto in comune con le sue creature, Monsieur Poirot e Miss Marple: si dilunga sui particolari della sua infanzia, i balli, gli abiti che ha indossato, le case che ha abitato, gli sport che ha praticato, i corteggiatori che ha avuto, e poi il primo marito, il secondo, le spedizioni in Iraq, i viaggi in Italia, le avventure in Iran e a Baku, il surf, i libri, la famiglia. Insomma, nulla sfugge all'occhio vigilissimo della regina del giallo, senonché, stranamente, c'è un episodio della sua vita che omette del tutto. «Ho ricordato quel che volevo ricordare» avverte, eppure, che abbia dimenticato proprio quella vicenda, è quantomeno sospetto...

La vicenda è questa: il 3 dicembre del 1926, Agatha, scrittrice promettente (ha già pubblicato Poirot a Styles Court, altri due romanzi e alcune storie brevi), moglie devota di Archibald Christie e madre della piccola Rosalind, scompare. Sparisce da casa sua, «Styles» (sì, in omaggio a Poirot) per undici giorni, e nessuno sa dove sia finita, che cosa le sia successo, e perché. La ritrovano il 14 dicembre in un centro termale e la spiegazione ufficiale dà la colpa a una sorta di «amnesia». Possibile?

C'è chi pensa a una trovata pubblicitaria, chi a una depressione, chi a una ripicca nei confronti del marito, che le aveva giusto giusto chiesto il divorzio, per sposare una tale Nancy Neele, una giovane di cui si era «innamorato», come aveva confessato alla stessa Agatha. C'è chi, come Michael Apted, ne ha tratto ispirazione per un film, Il segreto di Agatha Christie (1979), con Timothy Dalton, Dustin Hoffman e Vanessa Redgrave. A tentare una soluzione del giallo - perché questo è - è ora Marie Benedict, avvocato americano, appassionata di storia e archeologia come Dame Christie (non abbandonò mai il cognome del primo marito, anche dopo essersi risposata), nel suo Il mistero di Agatha Christie (Piemme, pagg. 288, euro 18,50). Benedict è già autrice di due biografie romanzate di grande successo negli Stati Uniti: una su Mileva Maric, la moglie di Einstein, e una su Hedy Lamarr, meravigliosa diva degli anni Quaranta. Insomma, la sua «missione» è raccontare figure di donne un po' «dimenticate», come spiega nella Nota alla fine del libro. Ma Agatha Christie decisamente non rientra in questa categoria, al contrario: è una scrittrice da due miliardi di copie, uno dei pochi autori che, quanto a successo di vendite, possa competere con il Padreterno... Ma, proprio a questo proposito, spiega Benedict: «Ho intuito che la soluzione di quel mistero poteva spiegare com'è diventata la scrittrice di maggior successo al mondo». Perché, questo è sottinteso, Agatha Christie non può non avere avuto un ruolo da protagonista nella sua stessa scomparsa; e quindi, mischiando romanzo e biografia, Marie Benedict si è spinta su questo terreno minato, e appassionante allo stesso tempo, ovvero un giallo sulla regina del giallo.

Ovviamente, il finale non può essere svelato. Però si può dire che la chiave della vicenda, secondo Benedict, ruoti tutta intorno al rapporto di Agatha con il marito Archie. Il libro è costruito su due momenti temporali paralleli, il primo dei quali è un «manoscritto» in cui la stessa Agatha racconta la storia della coppia, da quando conosce l'affascinante pilota Archibald a ridosso della Prima guerra mondiale, diventa infermiera per servire la Patria, si sposa, adora il marito, lo idealizza e poi piano piano si accorge di quanto sia diversa la quotidianità dalla passione e dal romanticismo iniziali (tanto per dirne una, quando lei gli comunica di essere incinta, lui mette il broncio perché è già geloso del futuro bebè); il secondo racconto è invece una cronistoria, giorno per giorno, della sparizione, in cui il fulcro è Archie, nel turbine delle indagini e dei sospetti, fra ricerche, avvistamenti e smentite.

All'epoca, la faccenda non passò inosservata: Agatha Christie era già un nome, e per ritrovarla fu scomodato perfino il suo idolo letterario, Sir Arthur Conan Doyle (che portò un guanto della scrittrice a un sensitivo...); la sua riapparizione improvvisa, poi, scatenò illazioni anche malevole sul fatto che si trattasse di un «lancio» di pessimo gusto per il suo nuovo romanzo. E se invece fosse stata una fuga dettata da ragioni molto personali, collegate all'infedeltà di Archie? Questo, fin dall'inizio, lascia intendere Marie Benedict, che certo non ha simpatia per il colonnello Christie, dipinto come un burattino mosso dai neuroni inarrivabili della moglie, che lo manovra tramite una «lettera» in cui ha messo nero su bianco una serie di istruzioni da seguire. E lui le segue, anche se controvoglia, perché una domanda lo tormenta: «Quando mai può avere avuto il tempo - anzi no, la preveggenza, l'accortezza, la paziente scaltrezza - di scrivere quelle parole? Ha mai conosciuto davvero sua moglie?». Facile dire, a posteriori, che sua moglie era quel genio di Agatha Christie... Ma lui era solo un ex pilota congedato, che si era riadattato alla vita normale e aveva accanto una donna che si guadagnava da vivere scrivendo romanzi polizieschi, di quelli «col morto», e che aveva iniziato a farlo solo per una competizione intellettuale con sua sorella Madge. Una donna che, grazie a Poirot, si era comprata (molto prima di Archie) una automobile, una Morris Cowley grigia, che la polizia ritrova sulla sponda del Silent Pool, un inquietante laghetto popolato - si dice - dagli spiriti degli annegati. Una donna che, dopo il divorzio (che, nonostante il dolore e l'umiliazione, sintetizzò così: «Questa fu la fine del mio primo matrimonio»), si risposò ed ebbe addirittura una seconda carriera come archeologa in Medio Oriente, in un'epoca in cui molte signore nemmeno uscivano di casa.

Ecco, se c'è qualcosa da dire sull'intenzione di Marie Benedict, è che Agatha Christie non è un personaggio da romanzo femminista, non è da incasellare in nessuna «missione», non ha bisogno di alcuna difesa (seppure a fin di bene): nessuno riuscì a fermarla in una esistenza così ricca e incredibile da spazzare via ogni femminismo e ogni ideologia come granelli di polvere dalle sue spalle granitiche, né il marito, né le regole sociali, né gli editori che all'inizio la rifiutarono, né la separazione, nemmeno i disagi di abitare accampata nel deserto. Però il merito, quello sì, è di avere riportato all'attenzione un piccolo grande mistero, che Agatha stessa ha voluto lasciare tale. Proprio affrontando il tema spinoso del divorzio, nella sua autobiografia semina un indizio: «Come scacciare il ricordo/ che si annida nei miei occhi? ha scritto Keats. Ma è poi giusto liberarsene? Nel ripercorrere con la memoria il viaggio che è stato la nostra vita, abbiamo il diritto di ignorare i ricordi che non ci piacciono, o questa non è, piuttosto, una forma di vigliaccheria? E tuttavia io penso che sia sufficiente dar loro una breve occhiata. Sì, è accaduto basterà riconoscere. Ma ora è finito. È un filo nel tessuto della mia esistenza che non posso rifiutare, ma è inutile soffermarvisi». Tocca ai posteri soffermarsi su quegli undici giorni, quei filini esili eppure appariscenti, nel tessuto di una vita così straordinaria..

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