Anche se talora sulla base di motivazioni diverse, i commenti degli specialisti alla Finanziaria, come pure quelli delle parti sociali (con l'eccezione dei sindacati) e degli amministratori locali son stati negativi. Soltanto il governo la difende sostenendo che porterà nei prossimi anni la crescita del Pil al 3%. Ad un tasso che l'Italia ha dimenticato da decenni.
Ovviamente, se dovesse realizzarsi quel che al momento sembra un miracolo, tutti dovremmo essere grati a Prodi, e gli stessi sacrifici che ora chiede passerebbero in secondo piano. Tuttavia, allo stato attuale delle nostre conoscenze, l'evento atteso appare assai improbabile. Certamente non è possibile escludere che Prodi disponga di una quantità di conoscenza superiore a quella casualmente distribuita nella società che gli permette di vedere ciò che agli altri è precluso. Ma la sua aspettativa non tiene conto di ciò che gli economisti sostengono e i fatti dimostrano: alti indici di crescita possono essere ottenuti soltanto riducendo tasse e costo dello Stato.
Il fatto è che la cultura politico-economica che sostiene la finanziaria è legata a presupposti e ad aspettative che sono quanto di più vecchio si possa immaginare. Non tanto perché si attende la crescita del Pil dalle lacrime dei ricchi, quanto perché la si attende da un incremento del costo dello Stato e, soprattutto, da una penalizzazione, a tutti i livelli, dell'innovazione.
In questa Finanziaria, infatti, non c'è nulla che incentivi l'innovazione nel campo della ricerca, nulla che possa favorire la creazione e la valorizzazione del capitale umano e neanche misure per attirarlo. E questo, più che il velleitario tentativo di produrre sviluppo ed innovazione aumentando tasse, imposte, vincoli e pratiche burocratiche, è il suo vero errore.
Il paradosso, quindi, è che in un mondo in cui la riduzione del lasso temporale tra scoperta scientifica e applicazione sociale viene considerato come la condizione della crescita economica, qui da noi si ostacola l'innovazione. Se nel passato si poteva constatare che essa era penalizzata dalla scarsa propensione dei privati ad investire in ricerca e dalla improduttività di quella pubblica, proviamo ora ad immaginare chi potrebbe essere stimolato a fare o a finanziare ricerca in un Paese in cui si aumentano le tasse senza diminuire l'inefficienza delle istituzioni. Ad esempio, che motivo avrebbe di stabilirsi o di produrre in Italia un giovane, o un imprenditore, il quale si accorge che da una scoperta scientifica è possibile derivare la tecnologia per realizzare un nuovo prodotto, o per innovarne (magari nei materiali) uno già esistente, sapendo che qui le tasse sono più alte e soprattutto che il tempo che intercorre tra la progettazione, la realizzazione e l'immissione nel mercato del prodotto è soggetta ad un percorso burocratico di cui non si può prevedere la durata? Poiché la conoscenza non può più essere rinchiusa da confini, scegliendo l'Italia il nostro intrepido e patriottico innovatore si esporrebbe così al rischio che un concorrente possa realizzare un prodotto analogo in un Paese in cui la maggiore efficienza della burocrazia gli potrà consentire un vantaggio temporale nell'ingresso nel mercato.
In un contesto in cui il fattore tempo assume un peso determinante, Prodi sceglie invece di realizzare una crescita miracolosa aumentando i vincoli burocratici a chi pensa di fare impresa o ricerca. Il fatto è che oggi l'unica ed autentica ricchezza delle nazioni è la conoscenza. È vero che nessun governo può distribuirla equamente, e che già i tentativi di crearla si sono rivelati vani, ma da questo all'ostacolarne la formazione, la crescita e l'attrazione il passo è indubbiamente lungo.
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