Da 27 anni invia alle figlie lettere che restano chiuse

Stufo di scrivere lettere ai Tipi italiani, che non si sono mai degnati di rispondergli (ah, che pessimo modo per celebrare la 700ª puntata!), Romano Trerè ha deciso di rivolgersi al loro aedo. Mal gliene incolse. Per uno di quei misteri assai poco gaudiosi frequenti nei giornali, la sua missiva con gli auguri di Natale, datata 19 dicembre 2013, in redazione dev'essersi infilata nella casella sbagliata e mi è stata girata con oltre tre mesi di ritardo. «Mi piace scrivere lettere a mano e ricevere risposta», si presentava. Ho cercato subito di rintracciarlo per telefono, ma non era in elenco. Allora m'è toccato affidarmi alle Poste. Peggio che andar di notte: il mio telegramma, dettato alle 9.58 del 4 aprile, è stato recapitato alla sua abitazione di Bologna soltanto tre giorni dopo, alle 12.45. Non restava che andare a conoscere Trerè di persona. Se l'era ampiamente meritato.
Ho scoperto così che il romantico grafomane non ha cercato di avviare contatti epistolari solo con i Tipi italiani e con me. Nossignori, è - oppure è stato - in corrispondenza con mezzo mondo: ergastolani (Renato Vallanzasca), scrittori (Luciano De Crescenzo), politici (Luigi Preti e Totò Cuffaro), cantanti lirici (Luciano Pavarotti, Alfredo Kraus Trujillo, Leo Nucci, Samuel Ramey, Chris Merritt, Fiorenza Cedolins), direttori d'orchestra (Daniel Barenboim), campioni dello sport («Ferdinando Terruzzi il 22 febbraio scorso, a 90 anni, mi ha risposto di suo pugno da Sarteano, Siena, allegandomi una foto di quando ne aveva 24; qualche giorno fa apro La Gazzetta dello Sport e leggo: “Morto il Coppi della 6 Giorni”, mi ha preso il magone»). E giornalisti, naturalmente. Per esempio ha scritto a Luca Goldoni, ottenendo prontamente risposta. Piccolo particolare: abitano a 300 metri di distanza l'uno dall'altro, uno in via Umbria e l'altro in via Bellaria. «Lo vedo sempre fare la spesa nel mio stesso supermercato, ma non ho il coraggio di fermarlo».
Le sorprese erano solo all'inizio. Si dà il caso che Trerè, prossimo al trentesimo di matrimonio con Cristina, si rivolga per iscritto persino ai suoi familiari. Alle due figlie ha inviato lettere da quando sono venute al mondo, «anzi, alla secondogenita da prim'ancora che nascesse», nelle quali ha fermato su carta le loro e le sue emozioni a mano a mano che crescevano e distillato consigli di vita. Continua a spedirne almeno tre o quattro al mese. Tutte regolarmente sigillate, affrancate e recapitate per posta. Solo che le bambine, nel frattempo diventate donne, non l'hanno mai saputo: le buste, una volta arrivate a destinazione, cioè a casa sua, vengono sequestrate dallo stesso mittente e riposte in un nascondiglio segreto. «Sarebbero dovute saltar fuori di lì soltanto dopo la mia morte. Ma lei adesso svelerà l'arcano, per cui il giorno che uscirà Il Giornale gliele dovrò consegnare. Meglio. Quante lacrime avrebbero versato trovandole a funerali avvenuti!». Chissà lo sconcerto di Federica, 27 anni, laureata in economia e marketing internazionale, che lavora da Ferragamo a Firenze, e Chiara, 23, laureanda in cinema, televisione e new media allo Iulm di Milano, nell'aprire quelle buste ancora intonse, inviate da ogni parte del mondo, nelle quali il loro papà non ha infilato solo decine e decine di fogli vergati fittamente a mano, ma anche banconote in lire ormai inesigibili («eh, lo so, fa parte del gioco») e «altre sorprese».
Trerè, pensionato dal 2012, è nato a Brisighella nel 1951. Il padre Vittorio, contadino, morì a 38 anni, e la madre Irma fu costretta a trasferirsi a Bologna con i tre figli piccoli per guadagnarsi da vivere come cuoca. Anche lui è stato chef in un ristorante. Uno dei 42 mestieri che ha svolto da quando, quindicenne, cominciò come garzone fra bar e salumerie. Giusto per elencarne alcuni: commesso in una boutique di Riccione; agente immobiliare; commerciante di tartufo bianco del Molise («la provincia di Isernia fornisce anche Alba ed Acqualagna»); tabaccaio per otto anni; edicolante per sei. Fino a coronare il suo grande sogno nel 2009: portalettere a Bologna. «Ma ero avventizio. Mi hanno tenuto solo un anno, il tempo di scrivere una pièce teatrale, Il postino, che ho anche portato in scena». Dopodiché ha insistito sul versante artistico: figurante all'Arena di Verona («sono stato sacerdote nell'Aida e mandarino nella Turandot, quella di Franco Zeffirelli e Plácido Domingo che nel 2011 ha inaugurato la Royal opera house di Muscat, nell'Oman»); attore in due fiction di Rai 2, L'ispettore Coliandro e Il commissario De Luca; il tabaccaio che assume la moglie del Papà di Giovanna, interpretata da Francesca Neri nell'omonimo film di Pupi Avati («l'ho incontrato per caso in un bar di Casalecchio, al funerale della mamma del compianto Nick Novecento, gli ho dato il mio biglietto da visita, passato qualche giorno mi ha chiamato e poi mi ha voluto anche per Un matrimonio, la miniserie di Rai 1»).
Dimentica nulla?
«Arbitro di calcio per 40 anni. Sono stato guardalinee in serie A e B. Ricordo la partita La Spezia-Chievo all'antivigilia del Natale 1999. La squadra ospite regalò i pandori dello sponsor Paluani. I giocatori liguri li lanciarono al pubblico delle gradinate. Dopo aver segnalato un fuorigioco, mi arrivò sulla testa uno di questi cartoni da un chilo e caddi a terra svenuto. Le buscai pure a Cosenza».
Possiamo chiudere il curriculum?
«Aggiunga candidato al Consiglio comunale per Forza Italia con il sindaco Giorgio Guazzaloca. Terzo dei non eletti. Consigliere più votato nella circoscrizione Savena. Esperienza finita presto. Per un moderato far politica a Bologna è impossibile. Ti mangiano vivo».
Nient'altro?
«Volontario da 15 anni, e presidente, di Telefono amico. Siamo in 26 e ci tassiamo per pagare al Comune l'affitto della sede. Riceviamo 8.000 chiamate l'anno da gente disperata. Sono gli unici momenti in cui parlo anziché scrivere».
Come le è venuta questa fissazione?
«Sono nato in campagna. Con il venditore ambulante del detersivo Tide, il postino era l'unico estraneo a girare per le fattorie. Noi ragazzini lo vedevamo pedalare in lontananza e pregavamo Dio che entrasse nella nostra aia. Appena sceso dalla bici, scattava l'assedio. “Fiv in là, basterd!”, fatevi in là, bastardi, urlava. Bastardi in senso affettuoso. Poi andava dalla nonna Rosina, nata nel 1889, analfabeta: “Av salùt, Rusina”. Estraeva la cartolina dalla borsa: “Viene dalle vostre nipoti in gita a Venezia”. Dopo tre giorni di esposizione sulla vetrina della cucina, l'ambito trofeo fotografico toccava a uno di noi. Se c'era una lettera, il postino la apriva e ne faceva un sommario resoconto alla nonna: “È di vostra figlia. Vuole portarvi in auto da lei a Bologna, a prendere un po' d'aria buona”, allora il clima agreste era considerato insalubre. “Av ringrèzi”, rispondeva la nonna, e infilava la busta nella credenza, fingendo che l'avrebbe letta più tardi».
Immagino che abbia conquistato sua moglie con una lettera d'amore.
«Più lettere. E telegrammi. Le scrivevo cose straordinarie. Sarei stato un uomo da non sposare. Mi sono deciso al grande passo a 33 anni, dopo due convivenze finite male, perché volevo dei figli. Come diceva George Bernard Shaw, la storia d'amore ideale si svolge per posta».
Stilografica o biro?
«Adesso biro, ahimè. Sono rimasto scioccato dall'esplosione di una stilo nella tasca della giacca mentre mi trovavo a Lucca. Vestito e camicia rovinati».
I suoi interlocutori preferiti?
«I cantanti lirici. Ho già riempito cinque raccoglitori. Quando nel 1999 morì Alfredo Kraus Trujillo, il giorno del trigesimo i parenti mi mandarono il santino. E poi gli scrittori. Dopo qualche tempo che eravamo in corrispondenza, Luciano De Crescenzo mi ha regalato la copia numero 337 di un'edizione fuori commercio tirata in 1.000 esemplari dalla Mondadori, Album di famiglia, in cui racconta la storia del suo casato. Ce l'hanno solo gli amici più cari, mi considera il 337° di essi. La dedica dice: “A Romano, perché si renda conto che abbiamo avuto gli stessi zii”».
Scrive anche ai politici.
«Il defunto ministro Luigi Preti, socialdemocratico, fu uno dei primi. Mi diede l'indirizzo privato di casa: via Costa, Bologna. Litigavamo sui pittori. Lui considerava Giuseppe Gagliardi, esponente del chiarismo, il più grande che avesse avuto la nostra città. Io gli obiettavo: e Giorgio Morandi? e Ilario Rossi? e Garzia Fioresi? Bisticci continui. Di recente sono entrato in contatto con Totò Cuffaro, ex presidente della Regione Siciliana. Per pudore, sulla busta mette solo “via Raffaele Majetti 70, 00156 Roma”. È l'indirizzo di Rebibbia».
E che cosa scrive a Cuffaro?
«Gli avevo dato la mia solidarietà perché gli era stato negato un permesso per uscire dal carcere. Ha risposto con parole che mi hanno commosso: “Anche se mura di cemento fronteggiano la mia libertà, mi sforzo di essere libero almeno con il pensiero, con la fantasia, con l'aiuto dei ricordi, con le illusioni. Sai, a volte ho l'impressione che persino l'orologio rallenti il suo girare o, addirittura, si fermi. Ho letto, non ricordo chi sia l'autore, che esistono le fermate della vita. Mi chiedo spesso, senza però avere mai certezza della risposta, se il carcere non sia una di queste fermate. La vita non si cambia. La vita cambia”. Un poeta».
Perché invia lettere ai carcerati?
«Non c'è disgrazia peggiore che perdere la libertà. Renato Vallanzasca mi chiedeva di spedirgli una foto della mia famiglia e poi mi mandava il calendario dell'anno nuovo, con il suo volto aggiunto in sovrimpressione a quello dei miei cari e la scritta “Con affetto, Renato”».
E come diavolo faceva?
«In isolamento poteva tenere computer e stampante laser. Mi spediva il calendario in decine di copie. E poi pretendeva di fornirmi biglietti da visita e carta intestata. Voleva che scegliessi i caratteri. Una volta mi ha inoltrato una prova con 100 font diversi. Io, che non ci capisco niente, gli ho risposto che andava bene. S'è incazzato: “Ma non vedi che per ciascuna lettera alfabetica ho usato uno stile diverso?”. Dopo cinque anni che ci scrivevamo, mi sono permesso d'inserire nella busta un foglio da 100 francobolli a titolo di rimborso. Non l'avessi mai fatto! Me ne ha dette di tutti i colori: “Mi hai preso per un barbone?”».
L'ha toccato nel suo amor proprio.
«Nel giro di due mesi, mia moglie e mia sorella si sono ammalate di tumore. Be', Vallanzasca è stato in assoluto la persona che mi è rimasta più vicino, anche dopo che mia sorella è morta, purtroppo. Mai una volta ho chiesto a Renato del suo passato. Finché un giorno mi ha scritto: “Ero bandito per scelta. Non ho mai sparato alle spalle. Non rinnego nulla, neppure gli omicidi che non ho commesso ma che hanno attribuito a me”».
Con quali altri detenuti è in corrispondenza?
«L'ultimo è Stefano Giuseppe Mollace, recluso qui a Bologna, dove s'è laureato in giurisprudenza. Rinuncia all'ora d'aria in cambio della possibilità di studiare e utilizzare il computer in biblioteca. Gli ho chiesto dove mai trovi la forza per istruirsi in un simile ambiente. Mi ha risposto con una poesia scritta nel 1861 da un adolescente inglese malato di tubercolosi ossea, William Ernest Henley, al quale fu amputata la gamba sinistra: “Dal profondo della notte che mi avvolge, / buia come il pozzo che va da un polo all'altro, / ringrazio qualunque Dio esista / per la mia anima invincibile”».
Perché da anni scrive alle figlie senza che loro possano aprire le lettere?
«Quando ho cominciato, erano troppo piccole per capire. Utilizzavo buste e carta intestata degli alberghi dove soggiornavo girando l'Italia come arbitro. Poi è diventata un'abitudine. Di recente sono stato a Roma dal lunedì al venerdì per partecipare alla Prova del cuoco di Antonella Clerici. Anche da lì ho scritto loro tutti i giorni: 10 lettere rimaste chiuse, nascoste insieme alle altre. Nelle ultime missive mi occupo del dopo, impartisco disposizioni per il mio funerale. Dovrà essere segreto, presenti solo cinque amici».
Tema prematuro.
«Lo spero. Sono passati appena sette anni da quando ho partecipato all'Empire State Building run-up, la scalata al grattacielo di New York, poi ripetuta nel 2008. Ho perso 12 chili per essere uno dei 150 concorrenti selezionati in tutto il mondo, 86 piani con un microchip nelle scarpe che controlla la velocità. Ho salito 1.786 gradini in 21 minuti e 35 secondi, classificandomi 134°».


Perché i ragazzi non si mandano più le lettere e trionfano i messaggini?
«Sono nati con il telefonino, il tablet, il computer. Però non s'è mai scritto così tanto come oggi. Solo che si scrive male, anzi, mail. Vuol mettere una lettera? Nella busta puoi chiuderci dentro il cuore».
(700. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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