La cacciata del Cav non servirà alla sinistral'analisi »

di Paolo Guzzanti

N on è poi così difficile capire quel che succede in questi giorni e in queste ore. Basta guardare alla politica non come un insieme di emozioni ma come una serie di teoremi di geometria non euclidea. Si parte dai principi di realtà. Primo principio: in Italia il centrodestra, comunque si chiami, è Silvio Berlusconi. Questo è un dato di fatto. Può piacere o non piacere, può mandare in bestia o in sollucchero, ma tant'è. Controprova? Due nomi: Fini e Casini. Fine della controprova.
Secondo principio di realtà, derivato dal primo. Quando Berlusconi ha ricevuto il primo agosto la condanna definitiva (ma rivedibile altrove) della Cassazione, una cosa era ovvia e quella stessa cosa è stata invece negata seguendo usi e costumi degli struzzi: e cioè che la sentenza giudiziaria avrebbe avuto immancabili conseguenze politiche che nessuno aveva la licenza di ignorare.
Dunque, essendo il centrodestra concentrato su un unico fattore di massa politica rappresentato da quella sola persona e da nessun altro (e qui si potrebbe ben aggiungere un purtroppo) sta di fatto che una liquidazione politica di una tale persona per via giudiziaria, non è praticabile. Controprova: l'intera procedura della giunta volta a dichiarare Berlusconi decaduto dal seggio di senatore è apparsa fin dal primo momento totalmente politica, perché il contesto è politico. Infatti il Senato avrà la piena libertà di votare sì o no, il che significa - banalmente - che esiste l'opzione politica di negare la concessione alla decadenza.
Se così non fosse, non si voterebbe. Invece si vota e dunque l'opzione politica esiste perché è figlia del principio fondante di una democrazia, secondo cui le Camere di norma proteggono un loro membro da qualsiasi attacco che provenga dall'esecutivo o dal giudiziario.
Personalmente sono sicuro che Berlusconi, anche se fosse appeso per i pollici nella più oscura segreta della torre di Londra, guiderebbe da leader la politica del suo partito, il quale a sua volta copre poco meno del cento per cento dell'area di centrodestra, o comunque quell'area così tipicamente italiana che rifiuta in qualsiasi modo, veste o etichetta la sinistra figlia del Partito comunista. Anche questo - ricordiamolo - è un dato di fatto ben noto ai grandi leader della sinistra, in particolare a Gramsci, Togliatti e Berlinguer: gli italiani che senza essere necessariamente «di destra» non ne vogliono sapere costi quel che costi della sinistra, sono per legge sociologica, storica e statistica dell'Italia da un secolo a questa parte, la maggioranza. Molti di loro non vanno a votare, ma quello è un altro paio di maniche. La sinistra sa che se vuole avere qualsiasi chance di vincere, deve frantumare il centrodestra e spingerne una parte all'astensione.
La sinistra non ha saputo resistere alla tentazione di aggiungere alla condanna penale inflitta a Berlusconi dalla magistratura italiana (che non è proprio come le altre magistrature europee, vedi le continue condanne che l'Italia riceve sul piano internazionale) anche la condanna politica all'ostracismo e alla messa al bando, prendendo così due piccioni con una fava: appendere per i pollici l'odiato e non vinto avversario e cancellarlo dalla scena politica.
E dunque si arriva dopo due mesi esatti alla resa dei conti politici di un evento giudiziario di enorme rilevanza politica. Berlusconi condannato in via definitiva è stato sfidato incautamente a dimostrare che non può essere liquidato come leader. Mi ha appena chiamato un giornalista della radio francese Rfi per chiedermi com'è possibile che i sondaggi diano Berlusconi e il suo partito al 30 per cento. Io non so se davvero i sondaggi lo danno al trenta per cento, ma non ne sarei affatto sorpreso. Ma sta di fatto che l'elettorato che si sente rappresentato da Berlusconi è lì. Solido e apparentemente più compatto della compagine parlamentare. Questa consistenza del comportamento dell'opinione elettorale italiana nei confronti di Berlusconi è però la prova provata, diciamo pure la pistola fumante della strategia del Pd che punta su Matteo Renzi. Che cos'ha Matteo Renzi di così speciale? Se lo ascoltate, nulla. Parla chiaro, asfalta, si veste, è cool, le sciorina, ha la battuta, dispone di un arsenale comunicativo eccellente e variopinto con tempi di reazione da campione di scherma. Ma sotto le parole niente, non un programma, non un sogno, non una grande visione per il futuro.
Ma, questo è il punto, Renzi va a raschiare una parte dell'elettorato di centrodestra che si sente frustrato, logoro, deluso per le riforme non fatte, per la mancata rivoluzione liberale di cui si vede poco o nulla. Quella è la forza di Renzi nel Pd: «Io pascolo fuori dai nostri recinti», può dire. E infatti è accreditato su un possibile 35 per cento, tagliato un po' con l'accetta.
Ed ecco allora che tutto torna: il Pd punta su Renzi che può vincere se e soltanto se va a pascolare sui prati di destra.

Ma su quei prati può pascolare soltanto se il padrone storico di quei prati è fuori gioco. Se Berlusconi campa (politicamente) la capra crepa, nel senso del renzismo. E a questo punto si può e si deve discutere su tante cose fondamentali: le tasse, il bene del Paese, l'aggravio fiscale e via discorrendo.

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