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Il cappio morale del rinvio a giudizio

Ora è il turno di Daniela Santanchè, ma invocare delle dimissioni per ragioni morali o giudiziarie o scongiurare la candidatura di chicchessia per ragioni morali o giudiziarie è un'abitudine che negli ultimi quarant'anni non ha conosciuto pause

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Ora è il turno di Daniela Santanchè, ma invocare delle dimissioni per ragioni morali o giudiziarie (quando c'è differenza) o scongiurare la candidatura di chicchessia per ragioni morali o giudiziarie (in effetti non c'è quasi mai differenza) è un'abitudine che negli ultimi quarant'anni non ha conosciuto pause: secondo stagione, i partiti di opposizione o una parte della società civile hanno cercato di ristabilire sempre nuove soglie oltre le quali un tizio dovesse dimettersi da una poltrona o essere estromesso da una lista. L'unica soglia in realtà la stabilisce la legge, che, con pena accessoria, può interdire una persona dai pubblici uffici (ossia inibire al condannato la possibilità di ricoprire incarichi pubblici) oppure, come nel caso della Legge Severino, può imporre lo stop a ogni carica elettiva o il suo decadimento dopo delle condanne gravi. Il resto, tutto il resto, sono scelte discrezionali di una politica che vorrebbe riprendersi il primato dopo aver lasciato ogni scettro decisionale in mano alla magistratura oppure a fazioni che hanno preteso di dividere il grano dal loglio. Dicevamo del Corriere della Sera: un collega in buona fede come Luigi Ferrarella, l'altro giorno, ha giudicato insostenibile «la contraddizione della presidente del Consiglio Giorgia Meloni» quando ha ribadito di voler far dipendere le dimissioni della ministra del Turismo, Daniela Santanchè, da suoi eventuali rinvii a giudizio; l'incoerenza sarebbe nella simultanea ricandidatura di Carlo Fidanza nelle liste di Fratelli d'Italia alle Europee: questo perché Fidanza, lanno scorso, ha patteggiato un anno e due mesi (pena sospesa) per una corruzione consistita nel far dimettere un consigliere comunale bresciano e, in cambio, assumerne il figlio come proprio assistente pagato dal Parlamento europeo. Il punto, per farla breve, è uno solo: Giorgia Meloni ha fatto una scelta e ne porterà la responsabilità davanti agli elettori, i quali potranno giudicare quanto grave o effimera sia la valenza di questa «corruzione». Non c'è altro, se non «un rapporto reciprocamente autonomo tra politica e giustizia» a margine del quale non c'è una «contraddizione» ma il diritto a una discrezionalità politica di cui Giorgia Meloni pagherà o incasserà il prezzo. Mentre la pretesa di «regole» generiche, comunque fuori dalla legalità e dentro una qualsiasi moralità, hanno condotto solo al caos o alla caciara. Basta rileggere i giornali degli ultimi lustri: si apprende che, secondo l'aria che tira, dovrebbero dimettersi da ogni incarico o non essere candidate in lista le persone condannate in giudicato, ossia, mediamente, condannate dopo tre gradi di giudizio, oppure no, è sufficiente che siano condannate in Appello, o forse neppure, basta che siano condannate in primo grado, anzi no, basta la richiesta di rinvio a giudizio, o meglio che la richiesta sia accolta dal giudice, o forse, ancora, in certi casi, è sufficiente che queste persone siano indagate o che il loro nome compaia nel registro degli indagati (non è la stessa cosa) ma poi non è neanche detto, perché forse dovrebbero dimettersi o non essere candidate anche le persone assolte ma solo per prescrizione del reato (dipende quale reato) ma in certi casi dovrebbero farlo anche le persone assolte e basta, tuttavia «coinvolte» in una vicenda giudiziaria (e qui in genere si pubblica lo stralcio di qualche verbale) oppure dovrebbe fare un passo indietro chi magari appaia come un giglio di campo ma risulti amico-parente-sodale di un'altra persona condannata o giudicata a sua volta impresentabile, o, proprio al limite, dovrebbe rinunciare anche una persona anche solo nominata in un'intercettazione pur priva di rilevanza penale, questo al netto, va da sé, di chiunque sia giudicato impresentabile o non più presentabile secondo i probiviri del partito, o lo statuto del partito, o il codice etico del partito, o il comitato dei garanti (del partito) o comunque non piaccia al Segretario. Abbiamo messo un punto, ma le regole improvvisate per chiedere dimissioni o non-candidature potrebbe proseguire parecchio: ci sono state le liste di impresentabili stilate dalla Commissione Antimafia (come fece la Commissione presieduta da Rosi Bindi) oppure quelle pubblicate da settimanali come l'Espresso, mensili come Micromega, quotidiani come Il Fatto, libri come «Se li conosci li eviti» o «Onorevoli Wanted» (indovinate gli autori) senza contare, in tempi più recenti, le liste dei «nostalgici» di questo o di quello.

Tutta roba che di democratico ha sempre avuto pochissimo.

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