Non so da quanti anni sento predicare che la lotta alla corruzione è una priorità, perché gli episodi criminali impoveriscono lo Stato, rovinano la reputazione del Paese e, di conseguenza, scoraggiano gli investimenti stranieri eccetera. Il caso Expo e soprattutto quello del Mose gridano vendetta e dimostrano che approvare troppe leggi mirate a colpire i ladri, lasciandoli fuori per sempre dal giro del denaro pubblico, non serve, quantomeno non basta.
Le norme varate dal Parlamento su iniziativa del ministro Paola Severino, responsabile della Giustizia nel governo Monti, alla prova dei fatti si sono rivelate poco utili se non completamente inutili. I furfanti hanno scrollato le spalle e continuato a rubare a man salva. Milioni e milioni intascati per vari lustri, senza che nessuno tra gli addetti ai controlli se ne accorgesse, comprovano che ci vuole ben altro per fermare l'attività frenetica dei malversatori. I quali affermano spesso di agire per finanziare il partito di appartenenza, mentre, in realtà, si danno da fare per arricchire se medesimi e poter vivere al di sopra delle proprie possibilità. Fin qui non ci piove.
Mi rendo però conto che la fantasia e l'intraprendenza dei ladri sono sempre superiori a quelle delle guardie, cosicché bisogna inventarsi un sistema talmente efficace da far immediatamente risaltare i comportamenti scorretti dei politici disonesti, allo scopo di stroncarli sul nascere. Ma è tanto difficile escogitarne uno infallibile, come sostengono gli esperti? Figuriamoci. Sarebbe sufficiente applicare un metodo caduto in disuso benché a suo tempo avesse fornito risultati eccellenti.
Mi riferisco alla pubblicazione obbligatoria delle denunce dei redditi. Di chi? Di tutti. Si tratta di immettere in Rete, divisi magari per categorie professionali e per luoghi di residenza, i nomi, i cognomi e i soprannomi di chiunque percepisca del denaro a qualsiasi titolo. Poniamo che io abbia un reddito annuo di 100mila euro e si certifichi che ne spendo in media 200mila. Anche un cretino sospetterebbe che stia ciurlando nel manico. Le autorità ordinano una bella verifica e mi sgamano all'istante, poiché ormai il denaro è tracciabile e si può agevolmente risalire a come lo abbia speso e a dove sia andato a prenderlo, visto che non l'ho denunciato. Se ho commesso un reato, dopo 20 minuti vengo incastrato e mi tocca pagare.
È ovvio che chi abbia la coscienza a posto non deve temere alcunché. Coloro che, viceversa, abbiano sgraffignato, tremino pure: chissenefrega. Conosco l'obiezione. Rivelare per legge il reddito personale e familiare significa mettere in piazza gli affari propri. Ma se sono affari puliti non c'è scandalo. E non c'è neppure violazione della privacy dal momento che non esiste nulla al mondo di più pubblico del pagamento delle tasse, il cui cespite non è una faccenda privata dato che in teoria è destinato alla cassaforte del fisco, ovvero dello Stato.
Alcuni sofisti, molto eleganti e poco pratici, osservano che divulgare le somme introitate dai cittadini comporti un rischio: alimentare l'invidia sociale. La quale invece è stimolata da ben altro, tipo constatare che il tuo vicino, assessore regionale o comunale, campa da principe. Non è mai la trasparenza che provoca guai, semmai l'opacità (e il sotterfugio).
La veridicità delle mie asserzioni è supportata dalle indagini impeccabili svolte dal procuratore aggiunto Carlo Nordio a proposito delle tangenti veneziane (Mose). Come ha fatto il magistrato a identificare i presunti malandrini? Confrontando il loro stile di vita - da autentici nababbi - con il reddito da straccioni da essi denunciato. La sproporzione fra quanto un tizio investe e quanto ufficialmente riscuote suffraga il dubbio che ci sia sotto del marcio. Nordio ha approfondito la questione con mezzi leciti e le mazzette sono emerse come sugheri nell'acqua alta o bassa che sia.
L'inchiesta di cui parliamo è paradigmatica. La si prenda dunque a modello per convincere i perplessi.
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