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Così i giapponesi massacrano i delfini

«Avvicinatevi alla baia e potreste farvi molto male». Con queste parole, il sindaco di Taiji ha accolto la richiesta ufficiale di filmare quanto accadeva in una baia di questa cittadina giapponese sul Pacifico, 500 Km. sud ovest di Tokyo. In quel tratto di mare si trova una delle più importanti rotte migratorie dei delfini. Da un po' di tempo correvano voci strane su quel che accadeva nella baia di Taiji. L’acqua, a settembre, diventava rossa, probabilmente per la presenza di una particolare alga, così si diceva, mentre notizie frammentarie e di fonte incerta lasciavano trapelare realtà molto meno pittoresche. Qualcuno proveniente dal posto, dopo generose dosi di sakè, si spingeva a spifferare sottovoce di una mattanza di delfini e prendeva dell’ubriacone, visto che a Taiji il delfino è quasi sacro, raffigurato ovunque in pregiate sculture e raffinati dipinti. Più sacro del delfino però è il dio denaro e questo non solo in Giappone.
Incuriositi dalle voci che giungevano sommesse dagli abitanti del posto e convinti dall’accoglienza del sindaco della cittadina, alla loro richiesta di filmare l’incantevole baia nel mese di settembre, si sono mossi Richard O’Barry e Louie Psihoyos, il primo reso famoso nel mondo come addestratore del famoso delfino Flipper, il secondo con alle spalle quasi vent’anni di riprese fotografiche per il National Geographic e cofondatore della Ocean Preservation Society, entrambi ora strenui difensori del delfino in libertà.
O’Barry addirittura gira il mondo per rendere nota la sua avversione assoluta per i SeaWorld e gli acquari dove tursiopi e altri delfini vengono confinati e addestrati ai giochi che ben conosciamo. «Ogni delfino che muore in cattività, dice O’Barry, è anche la conseguenza dei miei errori giovanili. Era giunto il momento di espiare le mie colpe».
I due si sono rivolti a una coppia canadese in grado di filmare a lungo in apnea. Immersi in profondità, al riparo da occhi indiscreti, KirK Krack e la moglie Mandy-Rae Cruickshank hanno piazzato le telecamere e hanno finalmente capito il mistero dell’acqua rossa. Ne è uscito un documentario, premiato al Sundance Film Festival che è un inno al delfino, una sinfonia di paesaggi e volteggi, un contagioso e frizzante documento su una baia straordinaria, con due soli minuti di orrore («bastano per capire» ha detto O’Brian). I pescatori giapponesi costringono in un angolo della baia migliaia di delfini. Alcuni vengono prelevati vivi e destinati agli acquari, gli altri vengono squarciati dagli arpioni impietosi delle loro urla e il mare, di un azzurro cielo, ribolle presto di una schiuma rossa e appiccicosa. Le loro carni saranno vendute ai ristoratori giapponesi che le trasformeranno in pregiate leccornie di balena.
Il trailer di The Cove (La Baia) sta facendo il giro del mondo su YouTube e il mistero che avvolgeva la baia di Taiji scatena proteste da ogni parte del globo, contro il massacro di questi mammiferi belli, aggraziati, clowneschi e amici dell’uomo.

Protesto anch’io pur con un dubbio atroce. Perché ho mangiato di gusto il salmone affumicato, dopo aver visto il trailer della maledetta baia? Solo perché il salmone non sa giocare con la palla?

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