Una firma sola, quella di Edmondo Bruti Liberati, procuratore capo della Repubblica. Bisogna andare lì in fondo, nell'ultima pagina del decreto che avvia Alessandro Sallusti verso gli arresti domiciliari, per avere un segnale della spaccatura vissuta dalla Procura milanese intorno al caso del direttore del Giornale. Non ci sono, nel decreto, né le firme di Chiara De Iorio, il pubblico ministero titolare del fascicolo, né quella di Nunzia Gatto, il procuratore aggiunto responsabile del settore esecuzione. Una anomalia che costituisce di fatto una sorta di avocazione da parte di Bruti. Di fronte al dissenso dei suoi colleghi, che ritenevano inevitabile spedire Sallusti per quattordici mesi in carcere a espiare la sua condanna per diffamazione, il procuratore ha scelto di decidere in solitudine. Come la legge gli consente, ha preso interamente su di sé la responsabilità di un fascicolo divenuto caso nazionale e internazionale. E ha deciso tenendo ben presenti gli effetti sulla vita del paese se il giornalista fosse finito in cella.
Solo Bruti Liberati sa quanto peso abbiano avuto, nella scelta di evitare il carcere a Sallusti, considerazioni puramente giuridiche; quanto quelle di opportunità generale; e quanto quelle più strettamente politiche; e che peso abbia avuto la moral suasion che da settimane si diceva provenisse dal Quirinale perché si arrivasse a una soluzione non traumatica della vicenda. Di certo c'è che per settimane il fascicolo su Sallusti ha avuto un andamento insolitamente lento, come se si volesse dare il tempo al Parlamento di approvare una legge che disinnescasse il caso; e solo negli ultimi giorni di fronte all'impantanarsi dell'iter parlamentare del disegno di legge, la Procura ha dovuto tirare le somme.
Tra i «colonnelli» della Procura, c'era chi premeva per la linea dura: Sallusti è un condannato come tutti gli altri, se proprio ci tiene ad andare in galera non ci resta che accontentarlo. I fautori della linea dura appoggiavano la loro tesi su una interpretazione letterale del decreto «svuota carceri»: non applicabile, secondo loro, a chi - come Sallusti - poteva chiedere la sospensione e non l'ha chiesta. Ancora pochi giorni fa, Bruti Liberati si è trovato faccia a faccia con due colleghi: insieme al procuratore aggiunto Nunzia Gatto c'era anche Ferdinando Pomarici, sulla carta oggi semplice pm, ma di fatto una delle figure storiche della Procura milanese. La Gatto, e forse anche Pomarici, hanno ribadito la loro tesi: Sallusti deve andare in carcere.
Ma Bruti non ci sta. Sa che la situazione rischia di diventare mediaticamente e politicamente ingestibile. A quel punto d'intesa con i suoi pm offre a Sallusti un' ultima chance, dandogli altre ventiquattro ore di tempo per ripensarci e chiedere i domiciliari. Sabato mattina, Sallusti risponde che non ci pensa nemmeno. A quel punto Bruti Liberati decide di fare di testa sua. Prende in mano il fascicolo e prepara il decreto che firmerà personalmente. È una materia, quella della esecuzione delle pene, che Bruti conosce bene fin da quando era sostituto procuratore generale. È un testo scritto soppesando ogni parola. Bruti deve aggirare alcune norme che apparentemente rendono impossibile una soluzione soft, come quelle del decreto svuota carceri, o quella che nel codice impedisce che una pena possa essere sospesa più di una volta. Deve spiegare perché per Sallusti possono bastare gli arresti domiciliari. Ma in contemporanea deve evitare di sconfessare i suoi colleghi della Corte d'appello e della Cassazione, che hanno marchiato Sallusti come una sorta di delinquente abituale.
Ed ecco il risultato. Bruti fa propria la previsione della Cassazione che Sallusti tornerà a commettere reati: «l'esame dei precedenti e delle pendenze potrebbe condurre a una prognosi non positiva esclusivamente riguardo al reato di diffamazione a mezzo stampa, ma proprio per le caratteristiche di tale reato non si ravvisa alcuna differenza quanto ad efficacia deterrente tra detenzione in carcere e presso il domicilio». Insomma, Sallusti potrebbe diffamare anche dal carcere, quindi tanto vale che venga messo agli arresti a casa. É ben vero che il diretto interessato non desidera questo privilegio, e che «è del tutto coerente con i principi di un ordinamento liberal democratico non imporre al condannato un percorso di rieducazione che egli abbia espressamente rifiutato». Però, ricorda Bruti, c'è l'esigenza di svuotare le prigioni, «nella finalità ultima di garantire il rispetto della dignità delle persone che debbono rimanere soggette alla applicazione della pena detentiva in carcere». È esattamente il trattamento che Sallusti aveva già rifiutato nel suo editoriale di qualche giorno fa, quando aveva invitato Bruti Liberati a scarcerare al posto suo qualcun altro delle migliaia di detenuti per lievi reati.
Invece, è questa la strada che Bruti imbocca.
di Luca Fazzo
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