Dai prof al Pd, ecco gli ultrà delle tasse

Con Monti in campo il centro subisce il fascino perverso delle imposte. E la sinistra se ne inventa sempre di nuove

Mario Monti durante una conferenza stampa a Bruxelles
Mario Monti durante una conferenza stampa a Bruxelles

Roma - Che pagare le tasse sia bellissimo lo disse nel 2007 l'allora ministro economico del Prodi-2 Tommaso Padoa Schioppa. Una frase citata qualche mese fa dalla ministra dell'Interno Anna Mari Cancellieri: «Ricordo sempre il compianto professor Padoa Schioppa. Lui diceva che pagare le tasse è bello. Aveva ragione, perché ciò esprime un compito etico, che è appunto bello, anche se nel senso comune spesso questo gesto non è inteso così».
Esiste in Italia un partito dei fan delle tasse? Esiste. Ed è sempre stato a sinistra. Fino a quando è arrivato il governo di Mario Monti a sposare l'estetica del fisco, la bellezza della stangata, il fascino perverso della ga(bella). Il Professore non solo ha imposto nei tredici mesi della sua discutibile cura la super-Imu di cui ancora ci lecchiamo le ferite e tante altre tra imposte, accise e balzelli. Ne ha anche teorizzato l'intima necessità: «Le tasse istituite dal mio governo sono servite per non far fallire il Paese. Questa volta, se non altro, le tasse sono servite e non sono finite in un impalpabile calderone». E nel governo dei Professori va segnalato anche il contributo di un'altra ministra, Paola Severino (Giustizia): «C'è un problema dell'economia, ma che ognuno ha il dovere di pagare le tasse».
È così che i centrini di Monti concepiscono la politica fiscale: a cercar la bella tassa. Più o meno come ha fatto il centrosinistra sin dal primo governo Prodi. Tutto ebbe inizio il 30 dicembre 1996 quando l'esecutivo progressista dette il via libera alla cosiddetta Eurotassa che per tutto il 1997 vessò gli italiani con lo scopo di spingere i conti italiani extralarge a entrare nel vestito attillato dei parametri di Maastricht. Il gettito (4300 miliardi di lire) fu garantito da un prelievo extra basato su cinque aliquote progressive dallo 0 al 3,5 per cento del reddito annuo lordo spalmato su nove rate per i dipendenti e su due tranche per i lavoratori autonomi. Un'imposta forse necessaria ma odiosa perché scaricò sui cittadini decenni di incapacità della politica. Non mancò chi, come il ministro del Tesoro Carlo Azeglio Ciampi, si spinse a ipotizzarne la restituzione per far digerire meglio l'esborso agli italiani. In realtà tutto si risolse con una compensazione che due anni dopo, nel 1999, riguardò solo il 60 per cento della cifra versata, senza interessi, peraltro vanificata da un paio di addizionali nuove di zecca. Il tutto mentre il ministro delle Finanze Vincenzo Visco vagheggiava l'introduzione di un «riccometro». Per qualcuno il tempo davvero non sembra trascorrere mai.
In tempi più recenti, il centrosinistra arrivò a concepire una «tassa sul tempo», come la definì nel 2005 Livia Turco: un prelievo orario dalla giornata degli italiani per una sorta di servizio civile obbligatorio. Non se ne fece più nulla, ma la proposta resta notevole perché dimostra l'attrazione fatale della sinistra per la parola «tassa». Misterioso fu il motivo che spinse gli allora Ds a ignorare altre più neutre parole come «banca».
Nel Pd c'è poi un think tank, il Nens, creato nel 2001 dallo stesso Visco e da Pier Luigi Bersani. Una sorta di «pensatoio delle tasse» da cui è uscito tra gli altri l'economista Stefano Fassina, oggi responsabile economico del Pd.

Uno che ci tiene a far sapere che il peso della leva fiscale è sopravvalutato: «Ci accapigliamo, anche ideologicamente, per studiare come togliere ai nuclei 100 euro di tasse e poi ignoriamo il fatto che lo stesso nucleo magari si trova a pagare 100 euro in più di abbonamenti ai mezzi pubblici». E che non si vergogna a promettere più tasse per tutti. O almeno per qualcuno: «Se il Pd vincerà le elezioni - ha promesso di recente - tasseremo ricchi e grandi capitali». Se non è amore questo.

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