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Eluana Englaro, dopo 15 anni ecco come si è arrivati al suicidio assistito

La morte della ragazza che era rimasta in coma per diciassette anni aveva suscitato scalpore nell'opinione pubblica: dove poi non è interventuta la politica, ci hanno pensato i giudici con diverse sentenze

Eluana Englaro, dopo 15 anni ecco come si è arrivati al suicidio assistito

9 febbraio 2009, ore 20.24. Il dottor Amato del Monte, primario di rianimazione della clinica "La Quiete" di Udine, telefona a Beppino Englaro per comunicargli che 15 minuti prima, alle 20.10, sua figlia Eluana era morta dopo 17 anni di coma vegetativo. Il 6 febbraio precedente i medici avevano sospeso l'alimentazione e l'idratazione artificiale che tenevano in vita la ragazza. Per ottenere questo risultato, la famiglia Englaro aveva affrontato undici anni di processi e quindici sentenze discordanti della magistratura italiana, più una della Corte Europea. Eluana Englaro era nata a Lecco il 25 novembre 1970. Il 18 gennaio 1992, quando aveva 21 anni e si era da poco iscritta alla facoltà di lingue di Milano, perse il controllo dell'automobile mentre ritornava da una festa in paese vicino a Lecco: colpì un palo della luce e quindi un albero. L'incidente le causò gravissimi danni al cervello e una frattura alla colonna vertebrale. Quando venne raggiunta dai medici a bordo di ambulanza era già in coma. Ben presto venne dichiarata in stato vegetativo permanente. Nel giro di un decennio abbondante la Corte di Cassazione si pronunciò in quattro occasioni e mise la parola definitiva sul caso nel novembre 2008. Con una sentenza che venne definita "storica", venne data l'autorizzazione a Beppino Englaro di interrompere l'alimentazione artificiale di sua figlia.

I giorni caldi della politica

Quel tema spaccò in due l'opinione pubblica. A diciassette anni di distanza da quella disgrazia - e poche settimane prima dello stop all'alimentazione e all'idratazione artificiale di Eluana - la politica italiana cominciò a discutere di questa vicenda, che causò anche un pesante strappo istituzionale tra l'allora presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, e il capo dello Stato dell'epoca, Giorgio Napolitano. Il governo, infatti, licenzia un decreto volto a vietare in qualunque caso e su tutto il territorio nazionale la sospensione dell'alimentazione e dell'idratazione dei pazienti: il Quirinale, tuttavia, non lo firma. L'esecutivo cerca allora di trasformare il decreto in un disegno di legge, con i presidenti delle Camere Fini e Schifani che convocano il Parlamento in sessione straordinaria per cercare di approvare la legge in pochi giorni. Ma è tutto inutile. La notizia della morte arriva in Senato mentre è in corso la discussione del medesimo ddl. Gaetano Quagliariello, vicecapogruppo a Palazzo Madama del Popolo delle Libertà, interviene a caldo e dichiara pubblicamente: "Eluana non è morta. Eluana è stata ammazzata". Che cosa è cambiato in tutti questi quindici anni sul tema del fine vita?

In una conversazione esclusiva con Il Giornale, lo stesso Quagliariello - uno dei protagonisti politici di quella stagione - racconta che quell'escalation di casi uguali e identici a quella di Englaro non c'è stata, contrariamente a quello che ci si poteva immaginare. "Quel dibattito portò a una proposta di legge sulle dichiarazioni anticipate di volontà. Nella nostra legislatura noi l'approvammo al Senato: si trattava di un testo non deterministico, che teneva sì conto delle dichiarazioni preventive della persona, ma che lasciava sempre uno spiraglio. Alla Camera ci fu ostruzionismo e la pdl ritornò solo nella legislatura successiva: fu l'inizio che innescò l'apertura verso l'eutanasia con la sentenza della Corte Costituzionale e con una persistente difficoltà dei Parlamenti a intervenire". Effettivamente dopo quella tragica vicenda che aveva riguardato Eluana, diverse sono state le sentenze giudiziarie che hanno riguardato le volontà di una persona di mettere fine alla propria vita.

Il caso di Dj Fabo

Il verdetto che ha sicuramente fatto più "scuola" da questo punto di vista è quello di Dj Fabo. In seguito ad un grave incidente stradale, avvenuto nel 2014, Fabiano Antoniano rimane cieco e paraplegico. Dopo essersi sottoposto a diversi trattamenti anche sperimentali, nella consapevolezza dell'irriversibilità della prognosi matura in lui la decisione di mettere fine a una vita che concepiva "indignitosa". Per questo motivo entra in contatto con Marco Cappato che nel febbraio del 2017 lo accompagna in Svizzera per sottoporsi alla procedura di accompagnamento alla morte volontaria (c.d. suicidio assistito). Al suo ritorno in Italia, dopo essersi autodenunciato, Cappato viene iscritto nel registro degli indagati per il reato di aiuto al suicidio ex art. 580 cod. pen.

Nel maggio del 2017 il procuratore della Repubblica ritiene che la condotta di Cappato rientri tra le condotte di partecipazione materiale o fisica al suicidio punite ex art. 580 cod. pen., mentre esclude la partecipazione morale o psichica in quanto l'indagato non risulta aver influito sul processo di formazione della volontà suicida di Antoniani. Tuttavia, dal momento che l'indagato non ha avuto alcun ruolo materiale nella fase esecutiva vera e propria della morte del signor Antoniani, la sua condotta in sé considerata si configura tra gli atti preparatori penalmente irrilevanti senza integrare il reato di cui all'art. 580 cod. pen. e per questo richiede al Giudice per le indagini preliminari l'archiviazione del procedimento nei confronti di Marco Cappato.

Interviene la Corte Costituzionale

Nel luglio del 2017 il gip rigetta tuttavia la richiesta di archiviazione e ordina al pm di disporre l'imputazione coatta per il reato di assistenza al suicidio nei confronti di Marco Cappato. Infatti secondo il GIP la condotta del Cappato deve essere inquadrata all'interno della fattispecie di cui all'articolo 580 del codice penale in quanto partecipazione materiale e morale al suicidio per aver agevolato l'esecuzione materiale del suicidio e aver rafforzato il proposito suicidiario di Fabiano Antoniani. Dopo avere escluso che l'intervento di Marco Cappato abbia in alcun modo contribuito a consolidare la decisione suicidaria di Dj Fabo, nel febbraio del 2018 la Corte d'Assise di Milano solleva questione di legittimità costituzionale dell'art. 580 cod. pen. nella parte in cui incrimina le condotte di aiuto al suicidio a prescindere dal loro contributo alla determinazione e al rafforzamento dell'intenzione di suicidarsi.

Questo perché si ritiene tale incriminazione in contrasto e violazione dei principi costituzionali che individuano la ragionevolezza della sanzione in funzione dell'offensività della condotta accertata. Con ordinanza n. 207/2018 la Corte Costituzionale ha rinviato all'udienza pubblica del 24 settembre 2019 la trattazione delle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 580 c.p., sollevate dalla Corte d'assise di Milano. Un anno dopo, con la sentenza numero 242 del 2019 (la cosiddetta Cappato-Antoniani), la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 580 c.p. nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, in presenza di specifiche e determinate condizioni, agevoli l'esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi.

La svolta del suicidio assistito

Il caso di Dj Fabo diventa sostanzialmente uno spartiacque. Davide Trentini, Giovanni Nuvoli, Elena Altamira, Walter Piludu, Laura Santi: sono diversi i casi di malati terminali che in qualche modo chiedevano di potere porre fine alla propria vita sui quali si sono accesi i riflettori. Poi si arriva alle ore alle 11.05 del 16 giugno 2022, quando Federico Carboni, 44enne di Senigallia, diventa il primo caso di suicidio assistito in Italia. È lui stesso a svelare la sua vera identità in un video postumo. Fino a quel momento, per tutti era "Mario", tetraplegico da 12 anni a causa di un incidente stradale. Federico è morto nella sua abitazione dopo essersi auto somministrato il farmaco letale attraverso un macchinario apposito, costato circa 5.000 euro, interamente a suo carico, e per il quale l'Associazione Luca Coscioni aveva lanciato una raccolta fondi. Dopo Carboni, anche la signora Gloria (in Veneto), ha confermato la propria volontà ricorrendo alla tecnica. Mentre Stefano Gheller (in Veneto) e Antonio (sempre nelle Marche) dopo il via libera da parte del Comitato etico sono liberi di scegliere il momento più opportuno per confermare le proprie volontà o eventualmente attendere o modificare le proprie intenzioni iniziali.

Più particolare era diventato, nel settembre 2023, il caso di Anna, 55 anni, affetta da sclerosi multipla dal 2010, e che dopo undici mesi di attesa ha potuto accedere alla morte volontaria assistita. Per la prima volta in Italia, viene riconosciuto che "l'assoluta e completa assistenza da parte di terzi" rientra nei requisiti ammessi dall'Asl come "trattamento di sostegno vitale". Quella della 55enne è patologia irreversibile senza possibilità di cura e senza alcuna terapia possibile. La donna si esprime con una voce estremamente flebile e ipofonica, ma è una vigile e perfettamente lucida. "È completamente dipendente dall'assistenza: mangia, si lava, si muove, va in bagno solo se fisicamente assistita da terzi. Quel filo di voce che ha, ancora per poco, le consente di comunicare la sua ultima volontà: accedere al suicidio medicalmente assistito", aveva fatto sapere l'Associazione Coscioni. Con Anna, quindi, Per la prima volta il Servizio sanitario nazionale si è fatto carico delle spese mediche necessarie per garantire l'accesso al suicidio assistito di una cittadina italiana. Diventa così la terza persona in Italia ad avere fatto valere il suo diritto alla morte volontaria assistita, come previsto dalla sentenza numero 242 del 2019 della Consulta.

Eluana Englaro e le conseguenze politiche

Il tema resta insomma incredibilmente attuale, soprattutto dopo le polemiche di un mese fa riguardo al voto dentro il Consiglio regionale del Veneto. Ad oggi, comunque, non è stato ancora sciolto il nodo in ambito nazionale da parte del potere legislativo. "La persona deve essere messa effettivamente nelle condizioni di compiere una scelta. Oggi la priorità è quella di attuare la legge sulle cure palliative prima di pensare a qualsiasi ipotesi sul fine vita - sostiene Quagliariello -. Uno può decidere tra una vita dignitosa e la morte e non tra la sofferenza e la morte". Ma, in ogni caso, è molto meglio legiferare piuttosto che lasciare questa materia alla cosiddetta giurisprudenza creativa - si dice convinto -. Perché in questo modo fai entrare un elemento di arbitrio. E questa cosa è oggi ancora più attuale. Noi oggi abbiamo sempre di più una cattivissima qualità della legislazione, dovuto in piccola parte ai Parlamenti e in larga parte agli esecutivi". Tornando alla battaglia a favore di Eluana Englaro, l'ex ministro delle Riforme ricorda che il primo a coinvolgerlo dal punto di vista istituzionale fu il presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga durante una chiacchierata telefonica una domenica mattina: "Ci sono due sentenze che arrivano sulla stessa identica questione a conclusioni completamente differenti. Stiamo parlando di vita e di morte, un elemento che un tempo non entrava nei Parlamenti". Il rischio è quello di arrivare a una sorta di "roulette russa di carattere giudiziario: a seconda della composizione della giuria, su due casi uguali si possono arrivare a due tesi differenti". Ecco perché quando il caso non era ancora mediaticamente caldo, aggiunge l'ex senatore del PdL, "io presentai un conflitto di attribuzioni, ritenendo che quella materia doveva essere trattata dai Parlamenti".

"Nessuno può pretendere di scegliere per un altro". Una convinzione che crebbe soprattutto dopo una sua esperienza personale. "Mio padre ebbe una malattia progressiva che è durata dieci anni. Nel corso di questo periodo le cure si sono evolute, si è trasformato anche il sentimento di mio padre, perché nessuno può prevedere fino in fondo cosa pensa nel momento in cui si trova in una situazione che ha solo immaginato e ha mai vissuto. E lui è morto con la voglia di continuare a vivere, anche se la qualità della vita deperiva nello stadio più estremo della malattia". All'epoca Gaetano Quagliariello si ritrovò a parlare della questione con Berlusconi in un due occasioni: "In entrambe, l'impostazione che lui recepì di quella battaglia era estremamente laica. Ricordo che il decreto venne approvato in Consiglio dei ministri all'unanimità: anche da persone non cattoliche, come Matteoli o Brunetta". Berlusconi, istintivamente colse in quella battaglia una radice di libertà. "Lui era aperto al confronto. Nel nostro gruppo, per esempio, c'era il senatore Giuseppe Ferruccio Saro che era invece un sostenitore della battaglia di Eluana sull'altro versante. Berlusconi parlava anche con lui e mi riferiva i colloqui che aveva con Saro. Là arrivò a una determinazione non facile partendo da un presupposto fondamentalmente laico, in cui considerava anche le ragioni della fede, le quali però non erano esclusive".

La battaglia tra Berlusconi e Napolitano

Poi, però, il decreto venne bocciato dal Colle. "Per quanto io abbia avuto un rapporto intenso di stima nei confronti del Presidente Napolitano, soprattutto quando poi diventai ministro delle Riforme, resto convinto che in quel caso i motivi di necessità e urgenza per fare un decreto esistevano tutti". Pronuncerebbe nuovamente quelle parole a caldo in Senato se potesse tornare indietro? "Onestamente non lo so. Io in Aula reagii di istinto. Là ci fu un tale carico di sofferenza per cui io ebbi l'impressione che i tempi concessi per approvare quella legge consideravano già che noi saremmo arrivati nel momento in cui l'esito era già stato determinato e previsto. Quel grido voleva riportare tutta la drammaticità che la vicenda conteneva. Io non avevo intenzione né di colpevolizzare né di dare giudizi di valore, ma semplicemente di riportare le cose per quelle che erano: non si trattava di una morte accidentale, ma procutata. Con la quale, evidentemente, si sarebbero dovuti fare i conti".

Il giorno dopo la morte di Eluana, Quagliariello rivela che ci fu una telefonata con il Cavaliere: "Berlusconi mi chiamò e mi passò Zangrillo, il quale mi diede una spiegazione di deontologia medica professionale del fatto che - anche se non erano state quelle le mie motivazioni - anche dal quel punto di vista era giusto quel grido di allarme che avevo lanciato". Come proseguirono invece i rapporti con Napolitano? "Dopo che smise di svolgere il ruolo di Capo dello Stato, una volta tirò fuori il discorso lui quando lo andai a incontrare a Palazzo Giustiniani. Durante una passeggiata sul terrazzo mi chiese quali erano le motivazioni di quel mio comportamento. Io gli spiegai che il problema non fosse eminentemente religioso - per quanto io sia credente - ma che quella battaglia la facevo da liberale. Giorgio Napolitano si fermò, ci pensò e mi disse: 'Sai cosa penso? Che esiste soltanto una categoria di politici più ideologici dei comunisti: sono i liberali'.

Fu la battuta che mise definitivamente fine alla polemica", conclude.

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