È un uomo ancora molto giovane per gli standard italiani (lo batte Goria, che fu presidente del Consiglio a 43 anni) e mi ha sempre colpito non la sua «moderazione» (parola e concetto ambiguo) quanto il suo senso della misura. In questi anni in cui sono stato in Parlamento non ricordo di averlo visto agitato, eccitato, sopra le righe. Il che non vuole affatto dire che Enrico Letta sia un mite, o un uomo accomodante. Solo, che non urla. E ricordo che parecchi anni fa ci trovammo insieme in qualche talk show televisivo e fui (...)
(...) sorpreso dal suo modo di ragionar che mi sembrò onesto e lineare.
È come tutti sanno un cattolico e, benché sia un cattolico di sinistra, sembra ad occhio e croce più un cattolico liberale che un esemplare di quel «cattocomunismo» che ha creato una frattura in quel mondo. Che sia un uomo coraggioso è dimostrato dal solo fatto che Re Giorgio, come ormai si usa chiamarlo, lo ha scelto e preferito al «dottor sottile» Giuliano Amato, un re senza terra che suscita inquietudini.
La scommessa, e anche l'eresia, è enorme: Enrico Letta accetta di fare proprio la cosa che Bersani ha cercato di non fare e per non farla ha paralizzato la politica italiana per due mesi, facendo perdere un punto di Pil. Il tabù era, e resta, il governo con l'odiato nemico. Il popolo della rete di sinistra, con i suoi tweet, le sue email, i suoi cellulari e i suoi toni minacciosi, hanno finora impedito che l'abominevole (per loro) matrimonio fosse celebrato: quello che porta a un governo che, comunque lo si voglia chiamare, è un governo Pd-Pdl. Non che Enrico Letta sia felice. Ma, come ricordava ieri il Financial Times riferendosi a una intervista con Enrico Letta, il nuovo presidente del Consiglio considerava a marzo un governo con Berlusconi «not ideal», non proprio l'ideale date le «aspre diversità fra i due partiti» e tuttavia non escludeva affatto la possibilità di fare una coalizione, «malgrado l'aspra opposizione» interna al Pd.
Il giornale inglese lo descrive mentre getta un ponte di lunga durata verso il centro-destra di Silvio Berlusconi, accettando probabilmente la vicepresidenza di Angelino Alfano con cui ha instaurato una buona relazione umana. Quante novità: la buona relazione umana, il tabù infranto, la sfida pacata ma implicita alle piccole ma rissose masse degli anabattisti del Pd che sciamano nelle strade e nel web imprecando contro il blasfemo governo fra destra e sinistra, che in Italia non si era mai visto, perché la maggioranza che sosteneva Monti era un'altra cosa.
Il giovane Letta, notoriamente nipote di Gianni, ha un passato europeo di prima qualità. Parla le lingue, inglese e francese, è nato a Pisa dove si è laureato, ed è già stato il più giovane ministro in Italia quando ebbe la responsabilità dei ministeri dell'Industria e dell'Agricoltura nel governo D'Alema nel 1998. Anche lui, come quasi tutti i cattolici oggi in politica, viene dalla Democrazia cristiana, militando nella sinistra di quel grande contenitore che si sfaldò con la fine della guerra fredda e gli scandali di Tangentopoli. I suoi quarti di nobiltà intellettuale e politica si trovano nel suo ruolo di segretario generale dell'Arel, il think tank fondato nel 1976 da Nino Andreatta e nell'Aspen Institute di cui è membro e che raccoglie alcune fra le migliori menti del mondo in materia di economia e politica estera. È un convinto europeista, ma promette battaglia in Europa dove chiede cambiamenti veri, visto che il risultato elettorale mostra una schiacciante maggioranza di italiani preoccupati o delusi dall'euro e dalle politiche europee.
Ma non è assolutamente disposto ad assecondare qualsiasi azione di rottura: «O stiamo in Europa e impariamo a starci nel modo giusto, o per noi è la rovina».
È arrivato al Quirinale guidando la propria macchina, e la cosa è stata notata da tutti i media del mondo. Non fa particolari concessioni ai cliché della sinistra e spera ancora di tenere insieme i pezzi del Pd, la parte riformista dialogante e quella radicale chiusa in se stesso. I fatti dicono però che non ha alcuna simpatia per quella parte e del resto il sentimento è reciproco: la sinistra lo detesta e già ieri i blog e i tweet partivano all'assalto del presidente incaricato, che però ha la stoffa del mediatore e comunque di quello che non si abbandona a dichiarazioni eccessive, come ha fatto invece Bersani chiudendosi in una gabbia senza vie d'uscita. Non si pronuncia sull'eventualità che il suo partito si spacchi definitivamente proprio a causa del suo ruolo di primo ministro di un governo che ha l'ambizione di durare. Ma non si fa illusioni: quando gli chiedono se intende riformare la Costituzione, risponde che questo è il compito della successiva legislatura, non di quella appena iniziata. È determinato a fare subito una nuova legge elettorale ordinaria con procedura semplice e sa bene che dopo aver compiuto questa augurabile impresa sarà difficile non passare subito a nuove elezioni, visto che una nuova legge delegittimerebbe con la sua semplice esistenza il Parlamento in carica. Ha l'aria di quello che non cerca rogne, ma che sa di doverle affrontare con decisione. Come diceva Theodore Roosevelt «parla a voce bassa, ma impugna sempre un bastone».
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di Paolo Guzzanti
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