Quello che le «quirinarie» non dicono. Sono notti insonni, di telefonate e trattative, di accordi sottobanco e promesse di debito, di illusioni e maledizioni, di schede firmate dai vendoliani per renderle riconoscibili e fugare ogni marchio da franco tiratore. Non c'è trasparenza al gioco dei troni. Sono tutti opachi, compreso Grillo.
La storia comincia con una telefonata serale. Prodi giovedì parte dal Mali e fa tappa a Parigi ed è da lì che parla con Renzi. La sintesi della chiacchierata è questa. «Matteo guarda che una settantina di parlamentari a Cinque Stelle voteranno per me». Renzi in certe cose è come San Tommaso, se non tocca non crede. «E Grillo lo sa?». Il Professore assicura che lui parla direttamente con il capo, il leader carismatico del movimento, e l'accordo è questo. Renzi resta scettico, oltretutto in questi giorni sta giocando su più tavoli e se con la sinistra si accorda con Prodi con la destra sussurra a D'Alema. Nel gioco dei troni, prima regola, bisogna lasciarsi aperte tutte le possibilità. È così che si limita a dire all'ex premier bolognese, si vedrà. Aspettiamo la prova della quarta votazione.
Arriva il mattino. L'appoggio dei cinquestelle si riduce. Grillo fa sapere che più di 42-43 voti non riesce a dare. Alla fine per beffa o necessità non saranno più di una ventina. Il risultato è l'imbarazzante capitombolo di Prodi, con i 101 voti mancanti su 496, la rabbia e lo sconforto per essere stato tradito e ingannato per la terza volta dagli eredi di Botteghe Oscure, l'assoluta inaffidabilità di Bersani che si è fatto la fama, non del tutto immeritata, di brucia candidati, tanto che ormai c'è il fuggi fuggi dall'indice di Bersani: «se ci nomina siamo perduti». Tutto questo naturalmente non ha nulla a che fare con la sfiga e neppure con il proverbiale masochismo della sinistra italiana. È che Bersani, raccontano nel partito, è andato completamente in barca. Il risultato è che il Pd è finito sugli scogli, distrutto, sconquassato, annebbiato e aggrappato ai relitti e in balìa delle correnti. Come ripetono in molti nel Palazzo: il Pd è morto.
In questo naufragio resta Massimo D'Alema. È lui che ancora spera di approdare da qualche parte. Sa che il Quirinale è la sua ultima occasione. È invecchiato, aspettando. E ora il Colle gli appare come l'ultima grande occasione per chiudere la carriera da re. Sette anni sono un orizzonte ampio, di grande respiro, con la possibilità di guidare il passaggio dalla melma della seconda repubblica verso un nuovo futuro. Lui ci crede ed ha ancora la forza per provarci. Nel gioco dei troni le informazioni sono oro. D'Alema ne ha. Sapeva del patto tra Grillo e Prodi, qualcuno lo ha avvisato, magari lo stesso Renzi, magari no. La sua mossa, veloce, rapida, come una controffensiva: abbassare il livello di consenso del grande avversario del '98. Prodi va disarcionato. Non solo non deve arrivare al quorum, impresa già difficile, ma serve il Ko, la dimostrazione matematica che nella sua bisaccia non sono ci sono i voti promessi, ma il vuoto di tanti inganni e illusioni. È così che il lider maximo invita i suoi grandi elettori a diversificare le preferenze, facendo cadere sul nome di Rodotà, candidato grillino, un'ottantina di schede. La trappola è servita.
Quando arriva il verdetto Prodi quasi non ci crede. Telefona a Roma per parlare con Arturo Parisi, Sandra Zampa, Ricky Levi. Che è successo? Come è possibile, sono stati loro a tirarmi per la giacca? Prodi giura che il Quirinale non era più neppure nei suoi piani. È stato Bersani a farlo candidare per acclamazione da tutto il suo partito. Il professore è rimasto ancora una volta vittima dei giochi di potere interni alla sinistra. Si racconta che Bersani avesse promesso a D'Alema di far uscire, nella riunione notturna al Capranichetta, il nome di Prodi come il risultato di mini primarie a voto segreto. Invece il segretario arriva e annuncia, come fa ogni volta: il prescelto è Prodi.
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