L’autore delle minacce social a Giorgia Meloni e a sua figlia è stato identificato e denunciato. È un disoccupato siciliano 27enne, pizzicato dalla polizia postale e dalla Digos su incarico della procura dei Siracusa che, stando all’agenzia di stampa Ansa, lo ha indagato per violenza privata aggravata. Ma il fenomeno delle minacce ai politici, soprattutto via social, è ben coperto dalla nostra normativa? Tra haters, troll e leoni da tastiera, il «problema» dei social è reale. L’universo dei social network, ormai una realtà quasi ventennale, ha fornito negli ultimi lustri a tutti i propri utenti non solo un modo per riallacciare i contatti con i propri compagni d’asilo, ma anche uno strumento per raggiungere con minacce o insulti praticamente chiunque, politici compresi. E il caso del siracusano con il suo aggressivo e anonimo account Twitter lo dimostra a sufficienza.
Ma anche se il fenomeno è nuovo, le norme del codice penale che sanzionano questi comportamenti ci sono, e anche il legislatore non è stato a guardare. Nell’ultimo caso, come detto, la procura avrebbe contestato al 27enne autore delle minacce contro Meloni la fattispecie di reato prevista dall’articolo 610 comma 2 del codice penale. La violenza privata punisce con la reclusione fino a quattro anni «chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa». Nello specifico, l’applicazione di questa ipotesi di reato è probabilmente collegata al fatto che i tweet di minaccia ammonivano la premier a desistere dal cancellare il reddito di cittadinanza, e la pena, nel caso, sarebbe aumentata dall’aggravante di aver commesso violenza o minaccia con uno «scritto (o, meglio, un post, ndr) anonimo».
Insomma, c’è poco da scherzare per chi usa i social come mezzo per lanciare minacce, anche se l’autore dei messaggi contro Meloni, soprattutto se è incensurato, difficilmente si affaccerà mai in un carcere. Va detto, comunque, che messaggi minacciosi di questo tenore piovuti su amministratori, politici o esponenti del governo via social possono trovare altre fattispecie di reato calzanti. Per esempio, varcando il labile confine tra violenza privata (come detto finalizzata a costringere la vittima a un’azione o a un’omissione, e che tra l’altro è procedibile d’ufficio) e la semplice minaccia, prevista dall’articolo 612 del codice penale. Quest’ultima, che sanziona «chiunque minaccia ad altri un ingiusto danno», prevede la querela della persona offesa e una multa fino a 1.032 euro o, in caso di minaccia aggravata, anche la reclusione fino a un anno. Ma oltre agli articoli 610 e 612, ce n’è un altro, il 338, che disciplina una fattispecie di reato che potrebbe essere commessa via social, tanto da portare, proprio per questa eventualità, a una modifica dell’articolo avvenuta nel 2017. Il reato è quello di «violenza o minaccia ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario o ai suoi singoli componenti», e proprio l’ultima parte, «ai suoi singoli componenti», è stata aggiunta cinque anni fa con la legge 105/2017.
Che si proponeva, in particolare, di inasprire le sanzioni per gli atti intimidatori nei confronti degli amministratori locali. Ma che, ovviamente, sarebbe applicabile a maggior ragione anche nel caso di minacce rivolte contro – come nell’episodio che ha riguardato Meloni – una presidente del consiglio.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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