L'inutile censura sull'inutile filmetto del solito Emmott

Nel documentario dell'ex direttore dell'Economist sul presunto declino italiano sfilano solo banalità e giustizialisti. Ma il divieto della Melandri è un autogol

L'ex direttore dell'Economist Bill Ellmott
L'ex direttore dell'Economist Bill Ellmott

Bill Emmott ha diretto per molti anni una rivista settimanale molto importante e autorevole, l'Economist. Ha scritto libri sulla crescita asiatica, ha fatto campagna contro Berlusconi («unfit to lead Italy»), poi si è preso del tempo per sé ed è venuto da qualche anno a vivere in Italia. È editorialista della Stampa, spende volentieri il suo ingegno per capire il Paese d'adozione recente, ha firmato un documentario sul declino italiano in cui si parla, a partire dal titolo, di una cara ragazza finita in uno stato di coma (Girlfriend in a Coma), che poi sarebbe questo Paese.
Il trailer, come genere, è un breve filmetto promozionale. Il suo intento è ovviamente attrarre chi lo guarda, di spingerlo a pagare il biglietto e a vedere il film, a parlarne con gli amici, a fare tam tam o passaparola, a scriverne sui giornali e a divulgarne il contenuto negli altri media. Il trailer del film di Emmott, che è stato stupidamente escluso da una proiezione già programmata al Museo di arte moderna di Roma, piccola censura da cui ricava grande pubblicità, sembra fatto per il motivo opposto: scongiurare lo spettatore intelligente di scegliersi un altro film, pregarlo di non considerare roba seria un'infilata di battute e banalità già viste e sentite, insomma un'autostroncatura, un gesto di autolesionismo senza ironia, nemmeno involontaria.
Nel trailer del nostro caro ospite e amico britannico si vedono in sequenza Saviano che difende le istituzioni nella solita postura fotogenica di scrittore-profeta, Eco in versione acqua e sapone che elogia il senso dello Stato, Jaki Elkann turiferario dell'ottimismo (e lo credo, con un Marchionne che ti fa i conti in tasca), un Berlusconi comiziante che ce l'ha con i comunisti, culi danzanti a strafottere, insomma non c'è risparmio di mediocrità luccicante, di stellari idiozie, di convenzionalismi da piccolo salotto.
Non posso escludere che la visione integrale del documentario, rinviata a dopo le elezioni nella sala del museo romano, ma possibile in mille modi diversi nell'era della multimedialità militante in tempo reale, riservi qualche intelligente sorpresa: Emmott è tutt'altro che fesso, sarebbe strano che nel suo filmato non si nascondesse anche qualche cosa di interessante. Ma non posso nemmeno escludere che il filmatino, strepitosamente baldante a giudicarlo dal suo pietoso trailer, si riveli nella sua integrità una boiata pazzesca, una turlupinatura per palati fini, un giochetto cinico sulla pelle di questo ospitale e gioioso Paese che sembra fatto apposta per essere sputtanato da chi lo ama e lo sceglie.
Vedremo. Intanto sarei curioso di sapere se del declino italiano secondo Emmott facciano parte, oppure no, gli intrecci bancari sui quali il governo Monti ha messo solo in parte le mani con il divieto di incrocio nella governance oppure i conflitti di interesse derivati dalla proprietà finanziaria dei mezzi di informazione governati dall'establishment (La Stampa, il Corriere della Sera, la Repubblica). Penso che un capitolo della versione integrale del documentario sia dedicato, ma non ne sarei così certo, al fenomeno ributtante dei pubblici ministeri che ostentano le loro inchieste giudiziarie sulla mafia e poi le giocano come fiches alla roulette della politica più faziosa, fenomeno inesistente in ogni altra parte del mondo, almeno con questo clamore e questa assurda lesione del prestigio e dell'imparzialità delle istituzioni. Chissà che nel film non si racconti anche la storia di Tonino Di Pietro e del suo personale declino da vecchia conoscenza dei consolati anglosassoni e della gente che piace, e che da Londra e Washington ha scommesso sulle mani callose di quel contadino furbo, scarpe grosse, venuto da Montenero di Bisaccia a miracol mostrare, fino alla fine ingloriosa di oggi.
Spero che Emmott abbia messo nel conto del declino italiano cosiddetto, a parte le solite sciocchezze sul monopolio dei media da parte di Berlusconi, l'andamento delle vendite e immatricolazioni delle automobili, insomma quella crisi dell'industria-stato che solo la solerzia e l'astuzia e il potere di leverage di un Marchionne hanno consentito di trasformare in una formidabile scalata alla Chrysler. Ci sarà certamente un racconto malinconico sulla vetocrazia sindacale e sulla cultura di classe che spinge i nemici di Marchionne e del suo sindacalismo aziendale a stremanti battaglie per la pianificazione e il controllo degli investimenti, mentre i salari e le condizioni di lavoro dei rappresentati finiscono sempre più in basso.
Se queste e altre cose non ci fossero, e tutto si risolvesse nella tiritera nota del Palasharp, del moralismo e del puritanesimo da bordello, sarebbe una vera delusione, un brodino di noia e di inelegante conformismo.

Bisogna aspettare le elezioni, se si sia adepti del museo romano, per vedere l'opera, che godrà della risonanza di un'inutile censura. Da quando in qua in campagna elettorale una fondazione privata esclude dal diritto di parola un giornalista con la sua operetta? Volete toglierci anche il diritto al banale?

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