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Così in sei giorni il Veneto sbianca Renzi, Grillo e Lega

Scoprire alle 8 di sera che la tua regione dà l'addio a Roma: si avvera la profezia dell'ispettore che seguì l'assalto al campanile di San Marco

Così in sei giorni il Veneto sbianca Renzi, Grillo e Lega

Ieri mattina alle 11.27 ho ricevuto una telefonata da Alessandro Sallusti: «Mi spieghi che accidenti sta succedendo in Veneto?». Hai rischiato di cogliermi impreparato, caro direttore. Pensa che fino alle 20 della sera precedente non l'avevo ben capito neppure io, che pure in Veneto ci sono nato e ci vivo da (quasi) 58 anni, fatta eccezione per i tre scarsi in cui mi avete deportato lì da voi a Milano, al Giornale. Imperdonabile, per uno che su questa regione ha scritto quattro libri. Per dirti come funzionano certe cose, paradossalmente ne sanno di più inglesi, russi, americani, arabi e australiani, perché a questa storia del referendum consultivo condotto via Internet hanno dedicato maggior spazio Times, Independent, Bbc, Russia Today, Nbc, Al Jazeera e The Australian che non quotidiani e telegiornali nostrani.

Sì, certo, qualcosa avevo leggiucchiato distrattamente. Ma, un po' gnocco come tutti i veneti, solo giovedì sera, quando ho potuto vedere in anteprima l'editoriale di Vittorio Feltri uscito ieri d'apertura in prima pagina, tutto mi è stato all'improvviso chiaro. Non era uno scherzo, non era folclore: il Veneto se ne stava davvero andando, almeno spiritualmente, dall'Italia. Così, alla chetichella, nel silenzio generale, senza barricate, senza colpi di schioppo, senza piraterie secessioniste a interrompere le trasmissioni del Tg1, che ieri alle 13.30 peraltro continuava imperterrito a ignorare la notizia.

La successiva cronologia dei miei gesti spiega meglio di un saggio che cosa è successo nel Veneto e che cosa molto presto accadrà, secondo me, in altre regioni d'Italia e d'Europa. Sono andato su Internet e ho cercato di comprendere quale fosse la reale portata di quest'iniziativa alla quale Feltri aveva ritenuto di dover dedicare il suo fondo. Ho digitato «referendum indipendenza Veneto» in Google. Il primo risultato era un sito: www.plebiscito.eu. Mi sono collegato. Mi sono registrato, fornendo i miei dati anagrafici, incluso il numero della carta d'identità. Ho ricevuto per posta elettronica un codice di voto. Ho aperto la scheda virtuale, facsimile con la tipica zigrinatura di quella elettorale, che recava il seguente quesito: «Vuoi che il Veneto diventi una repubblica federale indipendente e sovrana?». Sotto c'erano un «sì» azzurro e «no» rosso. Ho cliccato su uno dei due. Un «grazie» mi ha dato conferma che la scelta era stata validamente espressa. Poi ho detto a mia moglie: perché non voti anche tu? Netto diniego: «Non credo a queste cose». Penso che in quel momento parlasse la dipendente statale. A quel punto, mi sono sentito in obbligo di suggerire a Feltri, che nel suo articolo scriveva genericamente di «referendum in corso nel Veneto», di aggiungere l'indirizzo del sito e la durata della consultazione (dal 16 al 21 marzo). Mi ha dato retta. Non avevo dubbi: è nato a Bergamo, di qua dell'Adda. La Repubblica veneta arrivava fin lì.

In effetti ha ragione mia moglie: queste cose non servono a nulla. Non possono né modificare la Costituzione né avere valore legale. Ma quando alle 12.35 di ieri su www.plebiscito.eu ho letto che «alle ore 11 del 21 marzo, ultimo giorno di votazione del referendum di indipendenza del Veneto, i votanti registrati sono 1.993.780, corrispondenti al 53,41% del corpo elettorale», che cosa volete che vi dica? Mi sono finalmente sentito parte di un'avventura, ho persino creduto di contare qualcosa. Una sensazione che non m'era mai capitata nei 39 anni in cui ho esercitato l'elettorato attivo nei seggi un tempo di legno, oggi di cartone, dello Stato italiano. E ho concluso che, siccome il sangue non è acqua, 1.200 anni di storia della Repubblica veneta, in assoluto la più longeva che sia mai apparsa sulla terra, devono aver lasciato tracce indelebili nel genoma mio e dei miei fratelli.

Allora, caro direttore, per rispondere alla tua domanda iniziale, penso che nell'ultima settimana in Veneto sia successo questo. Primo: una regione laboriosa e composta ha dato l'altolà all'inconcludente e predatoria burocrazia centralista. Secondo: una nuova forma di democrazia partecipativa, messa in piedi da audaci volenterosi privi di mezzi, ha dimostrato al pachidermico e sclerotizzato potere romano che i cambiamenti si fanno in pochi giorni e senza bisogno dei partiti, basta solo volerlo. Terzo: un limpido verdetto ha oscurato il gigionismo parolaio di Matteo Renzi, i cui unici voti raccolti finora - 1.895.332 alle primarie del Pd - non raggiungono neppure quelli assommati da una consultazione di periferia. Quarto: un popolo concreto ha invecchiato di botto il velleitarismo telematico di Beppe Grillo, che anche da queste parti aveva illuso molti (mi scappa da ridere se penso che il comico genovese candidò Stefano Rodotà a capo dello Stato solo perché il giurista era stato indicato da 4.677 anonimi internauti). Quinto: un elettorato inferocito e sfiduciato ha dato la sveglia alla Lega nella regione dove la Lega è nata, costringendo i vari Luca Zaia e Flavio Tosi, imbolsiti dal prolungato esercizio del comando, a una rincorsa tanto affannosa quanto tardiva (ancora ieri La Padania, organo ufficiale del Carroccio, dedicava la sua copertina all'«euroaccattone» Renzi e confinava il referendum veneto in un richiamino a fondo pagina, quando si dice il senso della notizia). Sesto: s'è avverata la profezia scritta da Paolo Citran, l'ispettore in servizio nella sala operativa della questura di Venezia la notte del 9 maggio 1997, quando gli otto serenissimi espugnarono il campanile di San Marco: «Anche se non sembra neppure vera, questa storia continuerà a interrogarci a lungo».

Per farla breve, diretùr, anzi diretòr, vorrei dirlo in romanesco a una città anch'essa eterna, che non amo meno di Venezia, con le parole che monsignor Colombo da Priverno, giudice della Sacra Consulta, rivolge nel film In nome del Papa Re agli incartapecoriti confratelli del tribunale penale supremo dello Stato Pontificio: «Stiamo attenti, eccellentissimi padri, che quando un esercito è in borghese è un esercito di popolo. E cor popolo ce se sbatte sempre er grugno!».
stefano.

lorenzetto@ilgiornale.it

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