Macché gaffe, la Fornero ha ragione: il posto va conquistato, non preteso

Il ministro costretto a precisare le frasi al «WSJ» Invece ha infranto un tabù tutto italiano

Macché gaffe, la Fornero ha ragione: il posto va conquistato, non preteso

Dopo le reazioni suscitate dalla sua intervista, il ministro Elsa Fornero ha poi fatto - anche comprensibilmente - una mezza marcia in dietro: «Si faceva riferimento «alla tutela del lavoratore nel mercato e non a quella del singolo posto di lavoro». In un Paese come l’Italia è più opportuno seguitare a recitare il mantra dei luoghi comuni. E nonostante questo è davvero impossibile non sottoscrivere l’idea che «il lavoro non è un diritto, ma qualcosa che va conquistato, per cui si lotta, per cui potrebbe anche essere necessario fare sacrifici», come aveva dichiarato la titolare del Welfare nel colloquio con il Wall Street Journal. Anche Mario Monti ha riconfermato «certamente» la fiducia al ministro.
È infatti mirabile per varie ragioni quella dichiarazione, che vale più di ogni successiva correzione (ad usum di sindacati e partiti di governo), perché ricorda la radicale differenza tra posto e lavoro, tra un’occupazione (quale che sia) e una posizione sociale degna di questo nome. Per avere un salario o uno stipendio, in effetti, tante volte è sufficiente avere qualche amico o conoscente che ci inserisce nelle liste di questa o quella regione pronta, per ragioni clientelari, ad assumere decine di migliaia di nuovi addetti nonostante lo spread, la Merkel e il cataclisma finanziario all’orizzonte. Un lavoro, invece, è qualcosa di differente.
Un vero lavoro è un qualcosa che viene realizzato per gli altri: è un servizio che si offre ad altre persone, disposte ad acquisirlo e quindi a pagarlo. Ovviamente un lavoro autentico, in questo senso, è solo un lavoro nel settore privato e sul mercato: e non già perché gli statali non lavorino, ma perché nell’universo del pubblico impiego non è mai facile sapere se quell’attività serve davvero a qualcuno oppure no, se produce ricchezza o invece non ne distrugge, e se - in poche parole - è socialmente profittevole oppure no.
Apparentemente, il ministro Fornero ci ha invitato a prendere atto della necessità di impegnarsi per trovare un lavoro e anche per mantenerlo una volta ottenuto. E in parte è così, perché sicuramente va rigettato l’assurdo mito del posto fisso: costi quel che costi. Ma quelle poche parole messe una dopo l’altra obbligano, a ben guardare, a riconsiderare nel suo insieme l’intero assetto di una società in cui troppi sono solo occupati e sempre meno sono quotidianamente costretti a soddisfare clienti e utenti, dovendo al tempo stesso reggere una pressione fiscale altissime e dovendo fare i conti con una burocrazia asfissiante.
Se colto in tutte le sue implicazioni, il messaggio lanciato dal ministro è dunque dirompente. Chi contesta il ministro evoca la Costituzione (che taluni considerano «sacra e inviolabile», anche se nessuno ha il capito perché), ricordando che secondo la vulgata ogni italiano, per il fatto di essere tale, avrebbe titolo a un lavoro: o quanto meno a un assegno mensile. E in fondo la questione è tutta lì: nell’idea che si possa disporre delle risorse altrui e che lo Stato, che può espropriare tutto, debba in qualche modo sistemare ognuno: che lavori o no, che produca beni e servizi o neppure ci provi. Per giunta Fornero ha parlato di sacrifici.

Ha ricordato che ognuno deve darsi da fare e che questo implica spesso fatica, impegno, rinunce. Una società di bambini invecchiati cresciuti a pane e welfare non vuol sentire queste parole: tanto più scandalose quanto più sono vere.

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