Morto il procuratore comunista che non covava odio anti Cav

Milano Se ne va zu Gerà, come lo chiamavano i cronisti giudiziari, abituati a trovare sempre aperta la sua porta di procuratore, e persino a ricevere le sue visite nella sala stampa del tribunale. Il primo ad andarsene, di quel gruppo di magistrati passati alla storia come pool Mani Pulite, è lui, Gerardo D'Ambrosio: il più malconcio in salute, il più esplicitamente comunista, il più lineare e il più umano. L'unico, del pool, a spezzare una lancia per il ritorno in patria senza manette di Bettino Craxi, quando il leader socialista agonizzava nella latitanza tunisina. L'unico a dire, poco dopo la morte del leader, che «aveva ragione Craxi, i soldi li prendevano tutti». Ne nacque un putiferio con gli altri colleghi, Borrelli in testa (d'altronde, dietro la facciata, i rapporti tra i due non erano mai stati idilliaci). D'Ambrosio, in puro stile partenopeo, fece sapere a Borrelli che non accettava «imparate di creanza». E la battuta su Craxi rimase negli annali, esempio impagabile di verità raccontata in forma di gaffe.
Aveva ottantatrè anni, zu Gerà. Che il suo percorso si avvicinasse alla fine lo si era capito già un paio di mesi fa, quando il suo successore Edmondo Bruti Liberati e un gruppo di altri magistrati della vecchia guardia erano andati a trovarlo al Policlinico, dove era ricoverato per una polmonite. Un guaio grosso, per uno come D'Ambrosio, immunodepresso cronico a causa dei farmaci antirigetto che prendeva da quasi trent'anni: da quando, cioè, il suo cuore devastato da una infezione era stato rimpiazzato con quello di un giovane donatore. Dopo la botta del trapianto, era tornato un po' alla volta alla ribalta professionale, che aveva già occupato ampiamente negli anni Settanta e Ottanta, quando da giudice istruttore aveva condotto le inchieste su piazza Fontana, sulla pista nera che portava verso la cellula Padova di Ordine Nuovo, e sulla morte di Giuseppe Pinelli, il ferroviere anarchico schiantatosi nel cortile della questura di Milano quattro giorni dopo la strage. Tra la tesi ufficiale e poliziesca del suicidio e quella del delitto di Stato, D'Ambrosio si collocò a metà strada: «Malore attivo». L'ultrasinistra non gliela perdonò mai.
Nel pool Mani Pulite era approdato da procuratore aggiunto, un passo indietro alle superstar Borrelli e Di Pietro. Almeno fino a quando non gli era toccato il compito più delicato: avocare e gestire le indagini sulla «pista rossa», cioè sui finanziamenti al Pci e al Pds, che Tiziana Parenti aveva gestito con tale incontrollabile veemenza da venire estromessa dal pool. D'Ambrosio prese il fascicolo, smontò pezzo per pezzo il castello accusatorio montato dalla Parenti, e archiviò tutto quanto. Scrupolo garantista, spiegava lui. Ma il sospetto di un trattamento di riguardo verso l'ex Pci gli rimase addosso, e non contribuì a dissiparlo la rapidità con cui, dopo il pensionamento del 2002, aveva accettato di diventare editorialista dell'Unità, e nel 2006 l'elezione al Senato nelle file dei Democratici di sinistra.
Era un simpatico chiacchierone, a volte persino difficile da contenere. Le asprezze maggiori del suo carattere le aveva probabilmente mostrate nella sua prima vita, quella prima del trapianto, quando indagava sul terrorismo e aveva la fama di duro: ma d'altronde erano anni in cui i colleghi gli cadevano intorno sotto i colpi di Prima Linea. Nella sua seconda vita, quella col cuore nuovo e con Mani Pulite al potere, si dimostrò, dentro il pool, l'unico attento alle esigenze della politica: soprattutto quando divenne procuratore, e cercò di officiare la riappacificazione tra il pool e Berlusconi.

«Io non sono - disse - nella testa di Berlusconi, non so che obiettivi abbia. Non so neanche, e non me lo chiedo, se questa normalizzazione dei rapporti è nel suo interesse. Ma sono sicuro che è nell'interesse del paese». Se avesse vinto lui, la storia sarebbe stata diversa.

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