Non potremo curarci dove vogliamo

La sanità regionale in rosso frena il turismo osedaliero. Giusto guardare ai conti. Ma è assurdo tagliare i diritti anziché eliminare gli sprechi

Non potremo curarci dove vogliamo

Sta facendo discutere la decisione della Regione Campania di limitare la possibilità per i pazienti di accedere ai servizi sanitari delle regioni limitrofe. Con un decreto del dicembre scorso, il commissario «ad acta» ha infatti deciso che, in taluni casi, gli abitanti della Campania potranno rivolgersi a strutture delle regioni confinanti solo se in possesso di un'autorizzazione della loro Asl. La facoltà di curarsi ovunque all'interno del territorio nazionale, insomma, inizia a venire meno.
La ragione è che i conti sanitari sono talmente dissestati che per cercare di porvi rimedio si è disposti a limitare l'accesso ai servizi.
Il dibattito riguarda questioni drammatiche, perché in gioco è la vita delle persone. Mi pare che sarebbe demagogico, però, considerare la salute come un diritto incondizionato, intendendo con ciò che ogni cittadino italiano ha diritto alle migliori cure possibili. Le cure costano e quindi possono essere fornite soltanto se le risorse vi sono, e nella quantità (e qualità) che esse consentono.
In qualche modo, l'ente regionale richiama alla realtà. Poiché i soldi mancano, ci dice il commissario, facciamo di necessità virtù. Un simile atteggiamento potrebbe apparire responsabile, se in verità non manifestasse - una volta di più - la difficoltà a cambiare situazioni su cui è indispensabile intervenire.
La decisione di razionare l'accesso alle cure mostra che non si è in condizione di rimettere in sesto sistemi sanitari come quelli del Sud, che costano un'enormità e offrono servizi spesso scadenti. I dati sul cosiddetto «turismo sanitario» sono impressionanti, così come quelli sui conti delle diverse regioni.
In Campania (ma lo stesso vale per la Sicilia e la Calabria) ci si trova di fronte a un bivio: o si riduce l'accesso alle cure, o si ripensa alle fondamenta la sanità, ponendola al servizio dei pazienti e non più di medici, politici, infermieri, affaristi, amministrativi e via dicendo. Un sistema sanitario tanto costoso e che al tempo stesso obbliga a spostarsi in Lombardia o in Emilia in cerca di cure adeguate non lo si riforma impedendo ai campani di farsi ricoverare altrove. Avrebbe molto più senso, al contrario, chiudere tutta una serie di strutture (di fatto «bocciate» dai comportamenti di chi le utilizza poco) e finanziare quanti - dalla Campania - si spostano in altre parti d'Italia per essere operati. Soprattutto, è necessario introdurre logiche di vera concorrenza e autentica responsabilizzazione.
In fondo, quello della mobilità ospedaliera è un segnale di mercato: ci dice non già cosa pensano in astratto i nostri concittadini delle differenti sanità, ma in che modo - quando hanno problemi di salute - concretamente si comportano.
Bloccare la mobilità significa rifiutarsi di prendere atto di un fallimento: scegliere lo status quo (la sanità del Sud come «ammortizzatore sociale» e occasione di profitti spesso poco leciti) invece che quelle riforme che possono aiutare a dare cure migliori. Come ha scritto Serena Sileoni in un recente studio dell'Istituto Bruno Leoni, la mobilità ha «vantaggi immediati - nel consentire al paziente di scegliere un luogo migliore ove curarsi - e effetti dinamici positivi - nell'innescare una concorrenza tra sistemi regionali per evitare l'ammanco generato dalla fuga degli assistiti». Ma ancora una volta, c'è chi si sottrae a questa sfida.
A Napoli si cerca in effetti di adottare la strategia dello struzzo: esattamente come quando si pensa di salvare la previdenza di Stato ritardando il ritiro dal lavoro o riducendo i vitalizi.

Nei giorni scorsi l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici ha diffuso uno studio dove si può leggere che «comprare una siringa dovrebbe costare ad una Asl o un ospedale 2 centesimi, invece può costare da 3 a 65 centesimi». Perché non si parte da qui?

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