La solidarietà a Sergio Cofferati non è richiesta solo da un obbligo morale, verso di lui come verso tutti coloro che ricevono una minaccia di morte tanto esplicita. È resa necessaria anche da una preoccupazione che riguarda il clima in cui da troppi anni si vive in Italia. Il clima - è presto detto - grazie al quale il sindaco di Bologna, dopo aver a lungo rappresentato il mito della sinistra che non si piega, è diventato un repressore e un traditore per la sua visione della legalità e per la volontà di tradurla in provvedimenti di governo nella città che amministra. Da ieri, un nemico da colpire e da «avvertire» con una busta esplosiva.
Ecco perché l'allarme va ben oltre l'episodio in sé, un altro capitolo della strategia del terrorismo anarco-insurrezionalista, che non è un fenomeno nuovo e che si è già più volte segnalato, sapendo intervenire, come se fosse un soggetto politico, in alcuni dei conflitti più duri o quanto meno in quelli di alto valore simbolico. Qui il bersaglio è una figura di primo piano, che ha segnato la storia recente del movimento sindacale e dell'opposizione. Di più, una figura che ha rappresentato l'intera opposizione, che è stato un punto di riferimento generale - dai più moderati ai più antagonisti - e che, riprendendo Palazzo d'Accursio, ha dato il tono al sogno di rivincita dell'opposizione al centrodestra. Fino alla rottura di questi giorni, in cui le divergenze non si sono limitate a discussioni anche aspre, ma hanno assunto le forme di proteste di piazza contro un leader politico divenuto uomo delle istituzioni. E se protestare è un diritto costituzionale, lo è anche governare, soprattutto se si è eletti con un chiaro mandato popolare.
In Italia, ormai da anni, se non altro dal 2001, la libertà di criticare o di opporsi ad un avversario politico si è trasformata in una contestazione delle istituzioni. Quando si parla di clima avvelenato, nella nostra democrazia, è difficile non pensare al linguaggio correntemente usato contro Berlusconi e la leadership del centrodestra. Senza ricorrere agli archivi, basta andarsi a rileggere ciò che è stato detto dopo l'ultimo incontro tra il presidente del Consiglio e George W. Bush. Certo, l'obiezione è nota: il linguaggio non è terrorismo. Lo sa bene lo stesso Cofferati, coinvolto anni addietro in una polemica su Marco Biagi. Su un altro versante, lo sanno anche quei no-global i cui cortei, anche nei momenti di violenza, sono un fenomeno antropologicamente diverso da quello a cui ricorrono coloro che colpiscono nell'ombra con proiettili o esplosivo. E su un altro versante ancora, lo sanno coloro che caricano le polemiche politiche con parole da curva da stadio. Si può anche aggiungere che il terrorismo anarco-insurrezionalista non appartiene neppure a quell'«album di famiglia» di cui per tanti anni si è discusso e ha un Dna estraneo alle tradizioni storiche della sinistra.
Ma quando un sindaco, un rappresentante delle istituzioni, viene minacciato in questo modo, nel pieno di una battaglia politica, non si può non avvertire quanto pesino i veleni, le scomuniche, il non riconoscimento delle rappresentanze elettive, l'ambiente costruito da un clima di delegittimazione, le grida al tradimento, l'irresponsabilità del metodo di trasformare l'avversario in nemico o, come nel caso di Cofferati, il compagno in nemico. Ecco perché le parole di solidarietà non sono sufficienti, come non basta la dichiarata volontà di isolare il terrorismo.
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