La partita sospesa nel tempo dei miracolati delle Ande

L'hanno giocata 40 anni dopo il disastro aereo che decimò la loro squadra. E che li costrinse a diventare cannibali per sopravvivere

La partita sospesa nel tempo dei miracolati delle Ande

Hanno giocato la partita lo stesso anche se avevano già vinto. Eduardo Strauch, 65 anni, somiglia a Mourinho tra quindici anni, Daniel Fernandez, 66, è Lamberto Dini quindici anni fa. Sembrano vecchi ma sono immortali: «Più o meno a quest'ora stavamo precipitando sulle Ande. Oggi siamo qui a giocarcela...». A sessant'anni hanno rimesso la maglia che avevano a venti, per una partita di rugby sospesa nel tempo, giocata con quarant'anni di ritardo. Non ci sono tutti, ci sono solo quelli rimasti, esistenze sorteggiate a caso, premiate dal destino. É il fatto di essere vivi che è inspiegabile. Ci hanno messo quasi mezzo secolo ad arrivare fin qui, da Montevideo, Uruguay, a Santiago del Cile, quando al massimo ci vogliono due ore e mezzo di volo. L'aereo del resto lo avevano preso, un Fokker Fairchild FH-227D, Fuerza Nueva, volo 571, il 12 ottobre del 1972: 45 persone in tutto, la squadra di rugby «Los viejos cristianos», Collegio Universitario «Stella Maris», gli amici, i parenti e l'equipaggio. Ridevano, scherzavano, dormivano. Per una partita come tante. Non immaginavano che in campo sarebbero scesi il millennio dopo.
Ancora adesso è difficile da capire cos'è successo in quei cieli. Forse fu il vento, la posizione sbagliata o la velocità, i tempi, calcolati male. Pensavano di essere a ridosso della pista di atterraggio, invece si erano infilati dritti in mezzo alla Cordigliera delle Ande. Quando una turbolenza scagliò il velivolo sotto le nuvole come un pallone da rugby videro la cima delle montagne tutte intorno, una mischia da cui era impossibile uscire. L'ala destra, nell'urto con uno spuntone, si staccò tagliando di netto la coda del velivolo e portandosi via una parte dei passeggeri, l'elica perforò la fusoliera, quel che restò dell'aereo, senza ali né coda, scivolò per due chilometri lungo una ripida discesa nevosa, a quota 3657 metri, prima di schiantarsi. Dodici di quei ragazzi morirono nell'impatto, altri cinque nella notte, otto qualche giorno dopo quando una valanga travolse la fusoliera nella quale dormivano. Fernando Parrado si salvò, una seconda volta, solo perchè pochi attimi prima aveva cambiato il proprio posto con un altro.
Qualcuno aveva le gambe rotte, nessuno abiti adatti a proteggerli da quelle temperature, comunicazioni impossibili, razioni di cibo contate. Otto giorni dopo argentini e cileni decisero di abbandonare le ricerche, chi non si arrese, padri, amici, fratelli, mollò disperato dopo un mese. A bordo funzionava solo una radiolina a transistor, seppero da lì che nessuno li cercava più. Due mesi dopo tre di quei ragazzi Parrado, ormai convinto di essere un predestinato, Canessa e Vizintín tentarono l'impossibile, raggiungere il Cile a piedi, fuggire da quel posto senza via di fuga. Non avevano più niente da perdere tranne che se stessi.
Loro, gli altri, tutti per sopravvivere furono costretti a cibarsi dei cadaveri dei loro compagni sepolti nella neve, un confine morale duro da varcare anche quando c'è di mezzo la tua vita. «Mangiare carne umana resta la mia più grande tristezza» dice adesso, ma senza pentimenti, Canessa che di anni ne fa 61. Dopo dieci giorni di cammino incrociarono un allevatore, alla vigilia di Natale una spedizione di soccorso li portò via da un posto da dove non si torna. Erano rimasti in 16. Frank Marshall, vent'anni dopo, ci fece un film di successo «Alive, Sopravvissuti». «Le condizioni erano peggiori di quanto immaginate: vivere a 4mila metri senza cibo...» ricordano Eduardo Strauch, 65 anni, e Pedro Algorta, 61, davanti al quadro commemorativo che raduna le foto di chi non ce l'ha fatta.

Non si sono mai arresi, nemmeno murati vivi nella loro solitudine, in quel silenzio insopportabile. Ogni giorno è un giorno che il cielo ti ha regalato e che poteva non esserci più. Ma non c'è mai un altro giorno quando si delude se stessi.

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