Il Pdl non può tradire il suo leader e i suoi princìpi l'intervento»

Caro Direttore,
è sempre interessante leggere le valutazioni del ministro Quagliariello, al quale non va negata, tra le altre, la virtù della sincerità. Mi riferisco alla conclusione del suo intervento di ieri su Il Giornale, in cui manifesta una intenzione o una disponibilità alla separazione - sua e con ogni probabilità della delegazione governativa - dalla comune casa berlusconiana.
Ma, al di là di questo eventuale esito, emergono tre aspetti a mio avviso non convincenti, o comunque meritevoli di un confronto senza equivoci e senza ipocrisie.
Primo. Il ministro fonda il suo ragionamento su cosa sarebbe accaduto se fosse stata votata la sfiducia al Governo: a suo avviso, si sarebbe determinata una sequenza di ineluttabili sciagure. Premesso che la storia non si scrive con i se e i ma, e premesso che la prospettazione di tutte quelle conseguenze negative è per lo meno opinabile (ma è comprensibile, anche umanamente, che chi sieda al Governo sia più affezionato al mantenimento degli attuali assetti...), non è questo il punto della nostra discussione di oggi. Viene da chiedersi per quale motivo il segretario Alfano non abbia cercato in alcun modo di convincere il presidente Berlusconi e tutto il partito della bontà della sua impostazione, anziché costringere il Pdl ad una inversione di rotta, operata comunque all'insegna della responsabilità, per il bene del Paese e per garantire l'unità del nostro partito. Stare al governo deve avere una finalità e deve rispondere a un progetto politico e Raffaele Fitto lo ha spiegato bene: la questione non è se si sta al governo, ma come ci si sta, e se è stata accettata o meno (io penso proprio di no, se si parla con i nostri elettori) l'idea che noi sembriamo soltanto «ospiti» di una maggioranza di sinistra. Una maggioranza determinata a espellere a tutti i costi dal Senato il nostro leader, a riscrivere la nostra storia con l'inchiostro dell'indegnità politica e morale, e a imporre una linea di politica economica e fiscale diversa se non addirittura opposta a quella che abbiamo presentato ai nostri sostenitori.
Secondo. Che succederà se e quando il Senato, contro un sacro principio costituzionale e contro i pareri di autorevolissimi giuristi, dovesse pronunciare la decadenza di Silvio Berlusconi? Che farà il Pdl, a quel punto? Qualche lacrima di coccodrillo, qualche nota di agenzia, e poi business as usual? Avanti come se nulla fosse?
Terzo. Mentre scrivo queste righe, è in corso il Consiglio dei Ministri chiamato a varare la legge di stabilità. È doveroso leggere i testi finali, e lo faremo ovviamente in queste ore: ma si registra lo sconcerto dinnanzi a indiscrezioni molto poco rassicuranti sia sul fronte della tassazione della casa sia su quello della tassazione del risparmio. Anche qui, che si fa? Tutto normale? Racconteremo a noi stessi e al Paese che non si poteva fare di più, che si è raggiunto un compromesso che va comunque accettato? Sarebbe una scelta profondamente deludente, che marcherebbe ancora di più la nostra subalternità rispetto ai veri «azionisti di maggioranza» del governo Letta.
Infine, il ministro esorta tutti noi a non essere «lealisti senza realismo». Forse è il caso che i ministri si pongano il problema inverso, e cioè quello di non cadere in un realismo poco amico della lealtà. Lealtà verso Berlusconi, verso i nostri elettori, verso i nostri programmi liberali e riformatori in ogni settore, dall'economia alla giustizia.
E, a proposito del nostro presidente, resta un dubbio dopo la lettura delle parole del ministro Quagliariello e la sua prospettiva finale di una separazione.

Davvero, richiamare la centralità di Berlusconi, come facciamo noi lealisti, senza subordinate e senza ipocrisie, non rivela una palese contraddizione? Noi pensiamo che la leadership di Silvio Berlusconi non solo mal si concili con binomi e diarchie ma anche che non possa indurre alcuni nostri autorevoli amici a fare scelte di divisione, nel qual caso, è bene che lo scenario sia chiaro e comprensibile a tutti.

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