Perché è disumano processare il dolore

Luca è morto, in un modo atroce, a due anni. E suo padre Andrea è, senza dubbio, colpevole. Lo processeranno (processeranno l'ombra dell'uomo che era) per omicidio colposo, e probabilmente un pubblico ministero pieno di scienza giuridica e di cattiveria d'ufficio cercherà di indurre la Corte a credere in un «atto mancato», in una «dissociazione» ovvero nella volontà malvagia di Luca di punire in modo indiretto (...)

(...) la moglie Paola di chi sa cosa. Deliri psicanalitici e giudiziari a parte, Luca è già condannato all'ergastolo di un dolore senza fine, al ricordo straziante di quelle otto ore, di tutto quel che è accaduto e non doveva accadere, di quel che poteva accadere e non è invece accaduto. E ogni volta sarà come se una mano gigantesca gli strizzasse il cuore.
I momenti peggiori, migliaia, migliaia, migliaia, saranno quando penserà che il suo piccolo Luca piangeva sempre più, minuto dopo minuto sempre accaldato, assetato, affamato, sempre più debole e impotente, e che nella sua testolina da bestiola impaurita sperava solo che il papà sarebbe tornato a liberarlo da quella cintura con la quale l'aveva chiuso e condannato. Luca è morto con quella speranza, e Andrea non se lo perdonerà mai, questo sarà il suo ergastolo. Pensare e ripensare che, se soltanto si fosse girato prima di uscire dall'abitacolo, avrebbe visto i capelli ricci di suo figlio, avrebbe sorriso della propria sbadatezza e lo avrebbe portato all'asilo. Sarebbe bastato che, invece di pensare al lavoro, o alle chiacchiere della Gazzetta dello Sport, avesse parlato a Luca, per non dimenticarselo. Sarebbe bastato, forse, addirittura, lasciare due dita di finestrino aperto, come si fa quando non si vuole ritrovare l'auto troppo calda. E, invece, la meraviglia ricciuta Luca, morto, Andrea e la moglie Paola morti dentro, Andrea torturato a vita dalla solita domanda, senza risposta: perché l'ho fatto?
Riesco a entrare appena appena un po' nella sua testa perché ho vissuto un'angoscia simile, infinitamente minore ma dello stesso genere, che si è conclusa bene, benissimo, ma che poteva finire in tragedia. Non l'ho mai confidata a nessuno, neanche a mia moglie, che si chiama Paola anche lei. Lo faccio adesso, sull'onda di quell'emozione, sperando che Andrea un giorno la legga, e che lo aiuti. O che almeno aiuti me a liberarmi dall'incubo di quel che avrebbe potuto accadere.
Una tranquilla sera in casa, verso le 20. È l'ora del bagnetto di Nicola, allora due anni - proprio come Luca - e nostro unico figlio. Fargli il bagno era compito e delizia mia, un momento di grande intimità e di contatto fisico che ci univa in modo straordinario e irrinunciabile. Paola era in cucina a preparare la cena; Nicola, nudo e festante, in piedi accanto alla vasca giocava con l'acqua in attesa di essere sollevato e immerso.
A quel punto è suonato il telefono, il mio cellulare, in salone. Visto che non c'era nessun pericolo sono andato a prenderlo e ho risposto. Nello stesso momento, dal televisore acceso, sono partiti i titoli del telegiornale, interessanti. Li ho lasciato scorrere, uno a uno, mentre continuavo una inutile telefonata. Poi sono tornato verso il bagno, tre metri più in là.
E, come in un film dell'orrore, il mio unico, fragile, preziosissimo e amatissimo figlio Nicola, era piegato a V rovesciata, con la pancia sul bordo della vasca, i piedi fuori, la testa dentro l'acqua. Si muoveva, ma da come si muoveva era chiaro che non ce l'avrebbe fatta né a uscire né a immergersi, che sarebbe affogato.
Finché non l'ho preso, sollevato e visto respirare è stato il peggior momento della mia vita, un momento che mi torna sempre in mente, nitidissimo. A giudicare dal suo sorriso, Nicola non aveva neanche fatto in tempo a spaventarsi. Ma se la telefonata fosse stata particolarmente interessante, se il telegiornale avesse dato una notizia clamorosa, o semplicemente quella della morte di un amico? Se mi fossi soffermato al telefono, davanti al televisore, per commentare qualcosa, avrei trovato Nicola inerte. Annegato. Soffocato. Morto. A due anni. Per colpa della mia distrazione. E il suo ultimo pensiero sarebbe stato che il suo babbo ora sarebbe arrivato a salvarlo. Sempre immagino cosa avrei fatto, la corsa verso la finestra e il tuffo nel vuoto, per paura della disperazione. Poi la coscienza che avrei dovuto passare, invece, il resto della vita a cercare di consolare Paola, ad alleggerire il suo dolore e a scontare il mio.


Se poi ci fossero stati anche un processo e una condanna, la prigione, avrebbero aggiunto soltanto dolore a dolore: quello di non poter andare sulla tomba del mio unico, fragile, preziosissimo bambino. Che avrebbe perso la sua vita perché io guardavo il telegiornale, mica perché non lo amavo abbastanza.
@GBGuerri

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