La piazza torna a riempirsi e, ancora una volta, il nome che riecheggia è quello di Mohamed Hannoun. Nel corteo dedicato alla causa palestinese, i cori in arabo e il richiamo all’Intifada trasformano una manifestazione sul diritto alla casa in qualcosa di molto diverso: un palcoscenico politico dove la retorica della “resistenza” si intreccia con toni sempre più estremi.
Hannoun, anche se fisicamente lontano a causa del provvedimento che gli vieta di entrare a Milano, resta il protagonista occulto: viene citato, applaudito, evocato. La sua linea è chiara: la lotta, a suo dire, deve continuare “fino alla vittoria”. Ma è proprio questa escalation verbale a rendere ogni sua apparizione, diretta o indiretta, un caso politico e di ordine pubblico.
La memoria è nitida. In passato, durante una conferenza stampa davanti al Campidoglio, Hannoun ha rivolto attacchi verbali diretti ai giornalisti de Il Tempo e all’editore del gruppo editoriale, criticandoli per le inchieste sui suoi legami e sulla rete di contatti con ambienti dell’Islam politico che ruota attorno al suo nome.
In quell’occasione definì Il Tempo “il giornale di destra nazi fascista”, sostenendo che il quotidiano e “i giornali dell’editore” dedicassero “intere pagine per diffamare non la mia persona ma tutti noi per quello che facciamo”. E aggiunse: “Per cui la promessa che faccio a titolo personale e per coinvolgere tutti voi è che io non mollerò mai: io continuo la mia solidarietà per sostenere i diritti del popolo palestinese”.
Parole che, sommate al titolo stesso del video “Nazifascisti, uniti contro di loro”, suonano come un chiaro invito alla platea ad unirsi nel suo attacco contro Il Tempo e i suoi giornalisti, che con impegno e professionalità portano avanti da mesi delle inchieste legate proprio alla sua persona. Una trasformazione della critica in una vera e propria chiamata alla mobilitazione contro chi fa informazione. È stato un intervento aggressivo, dai toni apertamente intimidatori, che ha suscitato immediata indignazione. Ma non è riuscito e non riuscirà mai a intimidire chi continua a fare il proprio lavoro con serietà, rigore e coraggio. Di questo, ne può stare certo.
La pericolosità della sua retorica non si ferma alle invettive contro la stampa. Dopo la manifestazione del 18 ottobre a Milano, alle parole pronunciate da Hannoun ritenute dalle autorità una vera e propria istigazione a delinquere è seguito un provvedimento di allontanamento dal capoluogo lombardo (foglio di via) emesso formalmente dalla Questura. In quella circostanza, riferendosi ai cosiddetti “collaborazionisti”, Hannoun avrebbe affermato secondo quanto riportato dalla stampa e documentato in video:“Chi uccide va ucciso. Perché piangere per questi criminali?”. Una frase che non appartiene alla dialettica democratica del nostro Paese, né a quella di alcuna democrazia, ma alla logica della vendetta e della legge del taglione. Ed è esattamente per questo che la Questura ha parlato di istigazione, facendo scattare il daspo urbano.
Nel corteo più recente, la lotta per il “diritto alla casa” è stata fusa con la causa palestinese, come se tutto facesse parte dello stesso fronte globale. Durante la manifestazione, inoltre, sono comparsi dei manifesti con scritto: “Quando vivere è un lusso, occupare è necessario”. Un messaggio che per chiunque conosca il contesto delle occupazioni abusive in Italia rischia di essere interpretato come un vero e proprio invito a violare la legge.
Il rischio è evidente: confondere i diritti con i reati. Perché una cosa è sacrosanta: avere una casa è un diritto. Ma un’altra cosa, completamente diversa, è occupare le case altrui, spesso di famiglie fragili o di anziani: un’azione che è e resta un reato previsto dal nostro ordinamento.
E se un messaggio pubblico, esposto in piazza, lascia intendere che “occupare” sia un gesto necessario o giustificabile, ciò non solo appare in netto contrasto con la legge, ma non rientra in alcun modo in una posizione democratica. Una democrazia tutela i diritti, non giustifica la violazione delle proprietà private, né trasforma la disperazione sociale in un invito all’illegalità.
Il quadro si fa ancora più pesante se si guarda fuori dall’Italia. Il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti ha inserito Mohammad Hannoun nelle proprie liste di sanzioni, accusandolo secondo documentazione ufficiale americana di essere un importante sostenitore finanziario di Hamas, attraverso l’uso di associazioni considerate dagli Stati Uniti come strutture di facciata che, sotto il paravento dell’aiuto umanitario, avrebbero fatto arrivare fondi al ramo militare del movimento islamista.
Secondo approfondimenti internazionali, Hannoun viene descritto come un “fundraiser di Hamas in Italia”, con una rete capace di muovere fondi e consensi in Europa per conto dell’organizzazione. In altre parole: mentre in piazza si parla di “diritti”, a Washington il suo nome compare tra quelli che secondo le autorità statunitensi avrebbero contribuito a sostenere finanziariamente un gruppo considerato terroristico da Stati Uniti, Unione Europea e molte altre democrazie occidentali.
Manifesti, slogan, striscioni: “Da Milano alla Palestina”, “contro l’occupazione sionista”, “la casa è un diritto”. Tutto concorre a costruire un immaginario in cui il nemico è sempre esterno, mai interno; in cui chi indaga, chi racconta, chi verifica giornalisti, editori, organi di controllo diventa, inevitabilmente, un possibile bersaglio.
La presenza di Hannoun, fisica o evocata, non è mai neutra: e questo è un dato di fatto. Ogni suo comizio, ogni video, ogni conferenza stampa si porta dietro un carico di parole, accuse, promesse e minacce che hanno l’effetto di incendiare il clima, di polarizzare, di dividere.
Ed è qui che la democrazia deve porsi un limite: tra il diritto di manifestare, legittimo e democratico, e la costruzione scientifica di un clima d’odio c’è un confine preciso. Quando si incita il pubblico a “unirsi contro” un giornale, quando si parla di “chi uccide va ucciso”, quel confine non è solo sfiorato: è superato.
Noi ci ricordiamo perfettamente le minacce, gli insulti, le accuse. Ci ricordiamo la conferenza davanti al Campidoglio, le parole contro Il Tempo, l’appello a “coinvolgere tutti” nella sua battaglia contro i giornalisti del quotidiano. Ci ricordiamo la piazza dove si parlava di “collaborazionisti da uccidere”. E proprio perché non dimentichiamo, non abbiamo paura. Non saranno gli attacchi di Hannoun, né le sue parole, né i suoi appelli alla folla a intimidire chi ogni giorno racconta fatti, connessioni, reti, rapporti tra una certa visione dell’Islam politico e il nostro Paese.
I giornalisti liberi continueranno a fare il proprio lavoro con onestà intellettuale, serietà e competenza, con la stessa professionalità di sempre, con schiena dritta, sapendo che il giornalismo libero è un diritto dei cittadini e un dovere per chi
lo esercita. E soprattutto sapendo che la libertà di stampa quando è vera, onesta e indipendente è uno dei cardini fondamentali della nostra democrazia. Un dovere che non si spegne davanti alle minacce, ma che si rafforza.