Quanta ipocrisia sulle Paralimpiadiil commento 2

di Tony Damascelli

Quanti erano gli inviati dei giornali alle Olimpiadi di Londra? Quante ore Sky, Rai ed Eurosport hanno dedicato quotidianamente alle stesse? E allora la provocazione di Paolo Villaggio ieri alla Zanzara di Radio24: «Le paralimpiadi sono tristi, non dovrebbero farle», ha una sua ragione, paradossale, ma vera, immediata, spietata, cinica ma sincera. Perché è ipocrita considerare Pistorius un atleta uguale agli altri, ho scritto un atleta e non, ovviamente, un uomo, e poi applaudire il suo ultimo posto soltanto per pietà, per lavare la coscienza e, un minuto dopo, pensare ad altro. Le Paralimpiadi sono un evento importante, consentono, a chi è stato colpito da una malattia, di potersi riscattare e vincere un'altra partita; non quella del campo, della pista di atletica, del parquet di pallacanestro ma quella della vita, dell'esistenza, contro un avversario occulto e bastardo, con l'orgoglio, la fatica, il sacrificio, la sofferenza. Il resto appartiene a noi altri, alle nostre paure, alla nostra saggezza di coccodrilli che mentre mangiamo riusciamo anche a piangere. Non è sbagliato concedere il podio a chi parte con un handicap, è sbagliata l'illustrazione eccessiva, l'enfasi, la retorica, la falsa partecipazione, il repertorio emotivo che si esaurisce immediatamente dopo l'opera pia. Nessuno, o meglio soltanto gli idioti e i senza cuore, può pensare di abolire i Giochi paralimpici così, negando l'evidenza di una malattia, isolandola, emarginandola. Sarebbe, allora, molto più dignitoso e utile, si dovrebbe ricordare al grande Paolo Villaggio, abolire le trasmissioni televisive che vivono e se la godono sui casi umani, esibiti di spalle, contro luce, tra uno spot pubblicitario e una velina. Quella sì è volgare speculazione sulle sofferenze altrui, carità pelosa, inganno culturale. Il gioco, lo sport, i Giochi, semmai, rappresentano il secondo tempo di una vita agra, tormentata, la vittoria momentanea sul buio, sulla morte, sulla disperazione. D'accordo, vedere ragazzi muoversi in carrozzina inseguendo un pallone, assistere a una corsa di una cieca, anzi non vedente, provoca commozione, strazio, angoscia, le immagini finiscono per disarmare, stranire perché è la disgrazia che ci viene addosso accompagnata dal sorriso di chi soffre e ce la fa mentre scorgiamo il ghigno malefico di chi si nasconde. La diversità non è una colpa, è un dato oggettivo, per alcuni fastidioso, perché siamo i primi a provare quasi un senso di disagio, come se indossassimo una camicia bagnata, se il nostro vicino di ombrellone, di tavolo, di ufficio è portatore di handicap. E allora monta la parte gentile, generosa, umana, della comprensione, dell'affetto, del rispetto che poi torna nel cassetto delle buone azioni per fare posto al resto. Non è di tutti, è di molti, della maggior parte e i Giochi paralimpici ne sono la dimostrazione, la conferma. Ma diventa maledettamente difficile esaltarsi, fare la ola, strillare al cielo dopo un gol, un punto, un primato ottenuti, conquistati da una ragazzo, una ragazza che stanno soffrendo mentre gioiscono, che vedono la luce come un flash e poi ritornano nel cono d'ombra che è il nostro, non il loro. Lo sport è festa, è felicità, è liberazione, a Londra resta l'ansia, la gabbia è chiusa, l'aria non trova il vento.

Lo stesso Paolo Villaggio ha esaltato, tra le sue caricature, la figura di Ugo Fantozzi, il ragioniere comico e tragico, il più grande perditore di tutti i tempi, sopraffatto dalle disgrazie proprie e dalla fortune altrui. Sarebbe forse lui il portabandiera delle Paralimpiadi. Ma è un film. La vita è una cosa tremendamente seria che accade mentre ci stiamo occupando d'altro. Gli atleti di Londra ce lo ricordano ogni giorno.

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