Quelle bugie italiane sull'«orco» Romney

E va bene, nulla da dire: Obama ha vinto fra gli applausi generali anzi mondiali. In Europa la media di coloro che tifavano per lui era all'incirca del novantasei per cento e dunque, a elezioni concluse, tutti vissero felici e contenti (speriamo) a cominciare dagli americani. I quali americani, però, pur consegnando a Obama la vittoria e la Casa Bianca si sono spaccati a metà: il presidente vince, sì, ma sul filo di lana quanto al voto complessivo. Non sto mettendo in discussione la solidità della vittoria ma richiamando l'attenzione su un punto: se è vero che Obama ha vinto, è anche vero che poco meno di un americano su due voleva invece il suo antagonista Romney. Hanno votato per Romney a quanto pare quasi tutti gli elettori maschi e bianchi, mentre parte delle donne, i latinos, gli asiatici, gli afroamericani e persino i russi hanno votato per Obama (...)

(...) il quale aveva al suo soldo uno stuolo di scrittori e gente di teatro che l'hanno aiutato a isolare e ingigantire le famose gaffes dell'avversario Romney come quando questi disse che si era fatto spedire interi schedari di donne, intendendo i curricula.
Mitt Romney, che è ottimo amministratore del suo Stato, che è un bravo uomo d'affari, un bravo padre di famiglia di una famiglia stucchevolmente tradizionale, non ha nel suo portafoglio bravi sceneggiatori e con lui non si schierava il mondo intellettuale di New York, di San Francisco o di Los Angeles, ma i rudi americani fieri di essere americani. Il punto cui voglio arrivare è: se, con tutti questi handicap e difetti, Mitt Romney ha conquistato il cuore di metà degli elettori, come mai ce lo hanno descritto come un rozzo perdente da quattro soldi, un campagnolo che non incanta nessuno?
Mi riferisco a tutti, o quasi, i giornalisti europei, italiani compresi, che conoscono l'America, scrivono dell'America, e ti spiegano gli anfratti oscuri della politica americana. Non faccio nomi perché molti di loro sono miei amici e colleghi di sicuro successo, ma costoro hanno dato finché hanno potuto un'immagine cretina e volgare del candidato repubblicano che poi si è visto che non corrisponde all'uomo in carne ed ossa. Lo si è visto specialmente al primo dibattito quando Mitt Romney si è mangiato Obama battendolo clamorosamente. Certo, poi Obama ha recuperato in parte e, addestrato come un pugile suonato, ha saputo tener testa nei successivi due incontri e segnare delle vittorie ai punti. Ma l'effetto del primo dibattito ha dimostrato che Romney era ed è un uomo preparato, garbato, civile, colto, con le idee chiare e capace di farle valere. Non è uno di quei matti del «Tea Party», un movimento ormai in disarmo, perché è un centrista moderato con la testa sulle spalle. Non è un «cow boy», non è un texano arrogante, è un borghese fiero del suo Paese e della sua classe sociale, che è la classe di chi crea ricchezza e non di chi la consuma: da qui la sua infelice battuta sugli americani nullafacenti che vogliono vivere mantenuti dallo Stato e dalla burocrazia, come accade in Europa e specialmente in Italia. E infatti, «Non vogliamo finire come l'Italia» è stato uno dei suoi più sferzanti e vincenti motti. Ma, ancora una volta, non voglio dire che Romney sarebbe stato migliore di Obama anche se lo penso. Voglio invece sottolineare quanto sia stato goffo, violento e subdolo il modo con cui tutti i nostri cronisti «liberal», europei e italiani, hanno tentato fino all'ultimo di rifilarci il cliché dell'americano rozzo, insopportabile, volgare, gaffeur, villano. Suvvia, che confessino: è stata un'operazione spocchiosa e mediatica. Ieri notte ero su una rete pubblica e assistevo divertito ma anche irritato al candore con cui le inviate parteggiavano apertamente per il candidato vincente. Era divertente, ma anche patetico e non professionale. Era supponente, infantile, inappropriato. La stessa cosa accadde molti anni fa quando l'ex attore cinematografico Ronald Reagan si presentò come candidato repubblicano. Fu descritto non solo in Italia come un campione della stupidità americana e della violenza, un vero fascista, un cow boy manesco e cretino. E fu uno dei più grandi presidenti della storia americana e un protagonista del ventesimo secolo.
Il fatto è che il giornalismo «liberal» dà per scontato che essere di sinistra significhi essere buono ed essere di destra, o repubblicano, in America significhi essere sia malvagio che imbecille, materiale buono per la derisione. Poi magari si scopre che le cose non stanno proprio così, che il divo democratico John Kennedy fu quello che aprì l'infernale capitolo della guerra nel Vietnam, e che fu il bieco pagliaccio di destra Richard Nixon a chiudere quella guerra e aprire alla Cina. Vecchie storie, vecchia storia, lo so. Ma i pregiudizi restano sempre quelli e con i pregiudizi non si scrivono pagine sempre limpide né di storia, né di giornalismo.

segue a pagina 7

di Paolo Guzzanti

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