
Sergio Scalpelli, ex assessore comunale e coordinatore del quotidiano Riformista, qual è la sua visione del Modello Milano, finito sotto accusa?
«Credo che il modello Milano inizi nella seconda metà degli anni Novanta con le due esperienze amministrative della giunta di Gabriele Albertini al Comune di Milano e la giunta regionale lombarda guidata da Roberto Formigoni».
Perché?
«Perché rappresentarono la capacità della politica e del governo di reagire al torpore, alla rassegnazione, all'infragilimento della città e delle istituzioni pubbliche dopo Tangentopoli, come racconta bene Renato Farina in Miracolo Milano. Questo lo fecero con un una doppia iniziativa: la prima ridare una visione al territorio dove la collaborazione tra pubblico e privato potesse esplodere ed espandersi su tanti settori. La seconda è che ebbero delle squadre di governo di primissimo ordine che seppero accompagnare questa visione con un processo di sburocratizzazione della macchina amministrativa».
Un progetto simbolo?
«Il recupero dell'area Garibaldi Repubblica, oggi nota come Porta Nuova, che cambiò lo skyline di Milano, ma soprattutto dimostrò come un pezzo di territorio frammentato in diverse proprietà si potesse ricomporre in una visione di insieme e restituire alla città. Poi sono seguiti City Life e un insieme di iniziative che hanno ricucito le terre di nessuno. Adesso siamo in fase di ricucitura definitiva con i progetti degli scali ferroviari».
Modello adottato poi dalle giunte di centrosinistra.
«È proprio questa la sua forza: le amministrazioni di centrosinistra, nonostante avessero fatto campagne elettorali con una certa
spinta ideologica e evocativa del cambiamento, non hanno intaccato le basi del Modello Milano, soprattutto sulla collaborazione pubblico-privato».
La prova è che lo sviluppo immobiliare ha proseguito con Pisapia e Sala....
«I grandi investitori immobiliari puntano su Milano e non pensano minimamente a replicare investimenti di quella portata su altre grandi città italiane. Oggi quel principio, quella storia e quel presente vanno difesi perché queste indagini possono provocare un indebolimento della città, degli investimenti e del processo decisionale, per cui tutto rischia di fermarsi».
Cosa fare ora?
«Bisognerebbe reinventare gli Stati Generali di Milano per decidere che tipo di città vogliamo».
Questo sviluppo esponenziale ha mostrato anche i suoi lati negativi...
«Negli ultimi anni si sono resi evidenti, come succede sempre nelle grandi fasi trasformative, gli effetti indesiderati ovvero il caro affitti, la mancanza di alloggi universitari, l'insicurezza e la disconnessione del centro dalle periferie. Il tema è difendere il modello e correggerlo dove va corretto».
Gli «effetti indesiderati» offrono un facile bersaglio...
«Mi piacerebbe vedere un centrosinistra che difende fino in fondo la sua esperienza di governo e un centrodestra che dice Noi saremo più bravi a rilanciare quel modello e a innovarlo non certo trincerarsi nella propaganda sperando di poter votare nel maggio 2026, invece che in aprile 2027».
La politica ha già perso con il «no» al Salva Milano, i partiti che si erano «lanciati» si sono mano a mano sfilati perdendo di vista lo sguardo d'insieme.
«Questo perchè la politica
italiana da 33 anni è sotto scacco delle Procure».
In che senso?
«Se le indagini diventano un modo per dare delle chiavi di lettura sulle politiche pubbliche, non vanno bene. Allo stesso tempo la politica è talmente indebolita e spaventata che al primo soffio di vento scappa».
Il primo filone di indagine era legato al fatto che il Comune di Milano ha dato un'interpretazione larga ed estensiva della norma.
«Compito della politica è dare delle risposte, dare interpretazioni corrette delle norme di legge».
Con queste inchieste, al di là del merito, si è sbriciolato il lavoro di ricostruzione della credibilità che Milano aveva fatto dopo Tangentopoli...
«Finché non sarà data un'interpretazione chiara della norma e non si deciderà quali sono i passaggi attraverso cui si possono ottenere i permessi di costruire, sarà la totale paralisi. Ma è proprio per questo che gli investitori sono venuti a Milano: perchè c'era la certezza del diritto».
A fronte di questa possibile sfiducia dei cittadini verso la politica, che cosa ci vorrebbe per un cambiamento? Un candidato civico, un nuovo partito?
«Ci vorrebbero due candidati sindaci con una forte impronta civica, cioè che testimoniassero la saldatura tra politica e società civile.
Penso che ci vorrebbe una specie di Albertini2 cioè un candidato con una sua forza autonoma e una politica capace di proteggerlo. Berlusconi ha sempre protetto Albertini anche dalle spinte, un pochino scomposte, dei partiti della sua coalizione».