Beppe Grillo, bravo come demagogo quasi quanto è bravo come comico, e forse ancora di più, disdegna i termini della politica tradizionale: e anche alcuni termini adottati dalla politica attuale. Non vuole che si parli più di onorevoli, ma non vuole nemmeno che si insista nel parlare di «grillini» con riferimento ai suoi seguaci. Come ha ben spiegato ieri Stefano Filippi, «leader» e «partito» sono bocciati. Ammesso «movimento», soprattutto se consiste in una lunga nuotata.
Il Beppe comiziante vuole inaugurare un nuovo glossario: ambizione, la sua, che ricalca altre ambizioni per niente comiche, e in qualche caso tragiche. Nel linguaggio politico grillino - mi azzardo a scrivere così perché le regole del movimento 5 stelle non sono ancora imperative - domina il termine «cittadini». Che non è un inedito - la rivoluzione francese ne fece larghissimo uso e abuso - ma che conosce così una seconda giovinezza. Vengono, i «cittadini», dopo i «camerati» del fascismo: dei quali rimangono tracce negli ambienti nostalgici. Vengono anche dopo i «compagni» del socialismo e del comunismo. «Camerata» non aveva di per sé connotazioni ideologiche, e nemmeno «compagno». Per verità i compagni e i compañeros sono in grande declino (si parla prevalentemente di compagno e compagna per indicare le coppie non unite dal vincolo del matrimonio).
Per il processo storico cui si sono accompagnate, certe parole innocue e generiche hanno avuto una mutazione inquietante, sono cambiate nella loro essenza. Diventando, secondo i punti di vista, pericolose o gloriose. Qualcosa di simile è capitato a «popolo», rivestito spesso e volentieri d'una solennità sacrale («quando il popolo si desta... ») e utilizzato per dare dignità anche ad atti ignobili di folle imbestialite e crudeli. L'alibi del popolo e dei suoi slanci salvifici è stato invocato per piazzale Loreto, e non era un caso.
Allora Grillo fa piazza pulita della retorica cerimoniosa e burocratica: e riduce l'argomentare politico ad alcuni concetti essenziali, uno soprattutto. Il movimento grillino - e dàgli, non riesco a togliermi il vizio - «ha l'obiettivo fondamentale di fungere da strumento per la libera partecipazione di tutti i cittadini alla politica». Vasto programma, avrebbe commentato Charles De Gaulle. Al bando dunque i formalismi dei tromboni issati alle alte cariche. Semplicità.
È un bell'obiettivo, quello che Grillo propone e non ho dubbi sull'onestà pacifica delle sue intenzioni. Vero è che con propositi analoghi irruppero nella storia le rivoluzioni, Luigi XVI divenne il «cittadino Capeto» e la sua testa rotolò nella cesta del boia prima di quelle dei cittadini Robespierre, Danton e di innumerevoli altri. Brandendo il termine «compagno», Lenin avviò una spirale di sangue. Non fraintendetemi, mi limito a rammentare, essendo di scena la predilezione del movimento 5 stelle per «cittadino», altre scelte lessicali dall'esito infausto. Non fa eccezione, in questo repertorio inquietante, neppure il «fratelli» di cui la Chiesa s'è a volte servita per scopi deplorevoli.
Non starò a rammentare la frase fatta secondo cui le parole sono pietre, ma tante volte lo sono di sicuro.
«Cittadino» è un termine nobile imparentato con la città ma anche con la cittadinanza e anche con la civiltà. Ed è senza dubbio un termine che oggi come oggi non suscita l'ilarità che s'impadronisce di noi se qualcuno audacemente accenna alle Camere, alle supreme corti e così via. La moglie di Cesare non dev'essere contaminata, ma qui i contaminati sono i Cesari e i Cesarini. Salvo i Cesaroni televisivi, Beppe Grillo adotti pure, per chiunque lo ami e lo segua, l'espressione «cittadino».
Ci consenta tuttavia di affermare che, nel nostro piccolo, siamo cittadini anche noi, e che non abbiamo avvertito il bisogno di farne esplicita e stentorea professione perché lo riteniamo ovvio.
di Mario Cervi
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