di Giuseppe Marino
Ciechi che eseguono manovre provette con l'auto, paralitici che sciano, mutilati che scalano montagne. Tutti invalidi fasulli, ovvio. Ci abbiamo fatto il callo, ma ogni volta ci si chiede chi li abbia miracolati, quali complicità abbiano procurato a questi ladri e truffatori migliaia di euro di indennità a spese nostre. Spesso medici o impiegati compiacenti, ma alla base del caso emerso ieri a Napoli c'è una verità più semplice e cruda: è bastata una comune stampante per gabbare l'Inps. Ed ecco il paradosso: a molti invalidi veri, procurarsi le tonnellate di certificati richiesti dall'ente costa tempo, soldi e fatica. Ai disonesti basta un computer, una stampante, al limite un salto in tipografia per farsi fare un timbro. È la prova, l'ennesima, che la tirannia del certificato, il dominio del «pezzo di carta» che regna in Italia in ogni ambito non è solo oppressivo nei confronti del cittadino, ma è anche totalmente inutile. In fondo sono solo fogli stampati. Il cittadino onesto per procurarseli farà file su file, alla faccia dell'autocertificazione ancora praticata a macchia di leopardo. Al disonesto basta «scannerizzarne» uno per riprodurne cento. Diciamolo chiaramente: non si può definire civile un Paese che pretende dai suoi cittadini un «certificato di esistenza in vita». Per non parlare dei molteplici documenti per attestare che si è morti. Perché si ostinano a imporci questo supplizio? Ufficialmente perché le pubbliche amministrazioni non sono ancora «in rete» l'una con l'altra, dunque non si possono scambiare le informazioni. Il che, nel 2014, farebbe ridere se non fosse solo una scusa. La verità è che il certificato è il simbolo di una logica perversa comune all'intera macchina statale. La richiesta del certificato è il momento in cui il cittadino è costretto a «baciare la pantofola» della burocrazia. È il sistema con cui tanti uffici giustificano la loro esistenza, ci impongono il loro avallo su ogni attività. Pensate al tempo speso per denunciare un piccolo furto.
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