Ecco la prova della «trattativa» fra Stato (il centrosinistra dell’epoca) e Antistato (quello mafioso delle bombe del ’92 e del ’93). Il memoriale consegnato alla commissione Antimafia dall’ex direttore delle carceri, Nicolò Amato, inchioda i massimi vertici istituzionali che ammorbidirono il carcere duro ai boss per evitare nuove stragi. Dieci pagine che «fanno luce sulla vera, mai rivelata e inconfessabile ragione della mia improvvisa destituzione il 4 giugno 1993». Amato è pronto a consegnare nuove prove. Nel frattempo fa parlare i «fatti» per dimostrare come nel ’93, «Cosa nostra abbia esercitato sullo Stato una illecita pressione, basata sulla commissione di stragi e sulla implicita minaccia di commetterne altre».
LE SETTE PROVE
I «fatti» li elenca di seguito. Spiega che dopo Capaci fu lui a riaprire le carceri di Pianosa e Asinara per metterci i boss. Che fu ancora lui a disporre il trasferimento nelle isole di tutti i mafiosi, eccezion fatta per una cinquantina costretti a cambiare cella per volontà di Martelli intenzionato a dare un segnale dopo la morte di Borsellino («la decisione venne però sempre presa da me insieme al direttore dell’Ucciardone»). Fu sempre lui, Amato, a insistere con Martelli per non risparmiare il carcere duro a 532 mafiosi, e poi per altri 567, per allargarlo a 121 carceri e sezioni dove voleva far trasferire 5mila detenuti di mafia. «Ma egli ha rifiutato di firmare, seguendo due pareri contrari al mio (...). Con ciò confermandosi, documentalmente, che sulla via della più intransigente risposta del carcere alla criminalità organizzata io ero più avanti del ministero e dello stesso ministro». Al successore di Martelli, Giovanni Conso, Amato chiese un inasprimento ulteriore del 41bis per bloccare ogni comunicazione dei detenuti e depotenziarne il prestigio: collegamenti audiovisivi al posto dei trasferimenti in aula (come poi avverrà otto anni dopo) e controlli audio-video nei colloqui (come stabilito sedici anni dopo).
MORTI SULLA COSCIENZA
«Ho, quindi, il diritto di chiedere quante comunicazioni illecite e quanti delitti sarebbero stati evitati se la mia proposta del marzo 1993 non avesse dovuto attendere tanti anni prima di diventare legge dello Stato; e di chiedere se la disattenzione o l’intenzionale disinteresse che hanno, purtroppo, accompagnato tale proposta comportino una responsabilità soltanto politica e morale o anche di rilevanza giuridica». Amato ribadisce di essere stato l’unico a non aver mai ceduto ai boss. «Fino al 4 giugno del 1993 nessun detenuto di mafia di un certo livello si è sottratto al regime del 41bis e nessuno dei decreti 41bis emanati è stato revocato o lasciato decadere». Altro «fatto» è la lettera contro il carcere duro inviata dai familiari dei mafiosi al presidente Scalfaro con la quale chiedevano di cacciare Amato e i suoi «aguzzini».
LA LETTERA DEI MAFIOSI
Di questa lettera «nessuno mi ha mai informato», così come solo recentemente Amato è venuto a sapere che Scalfaro, ricevuta la missiva, convocò monsignor Curioni, capo dei cappellani carcerari, e monsignor Fabbri, suo segretario, «per comunicare che la mia permanenza al Dap doveva aver termine, invitandoli ad aiutare Conso a scegliere il mio successore». Perché, si chiede Amato, Scalfaro e non il Consiglio dei ministri decise il cambio? Perché anziché le naturali sedi istituzionali vennero informati, della «sostituzione», i due cappellani inseriti nel circuito penitenziario fin da quando trattarono coi brigatisti detenuti per liberare Moro? «È un fatto - l’ennesimo - che dopo solo tre mesi dall’arrivo del papello di Cosa nostra, e pochi giorni dopo la richiesta di intervento dei due cappellani, io sono stato sostituito con Capriotti» al quale venne imposto come vice Francesco Di Maggio «senza grado e senza esperienza in materia penitenziaria», grande amico del capo della polizia, Vincenzo Parisi e «vicino ai servizi segreti». L’ultimo «fatto» raccontato si riferisce alla «nuova politica» penitenziaria, molto più soft dopo il suo defenestramento, che ha ridotto da 1.300 a 400 i detenuti in 41bis. Amato denuncia l’occultamento di «cinque appunti del Dap» da giugno a dicembre ’93 con le nuove linee guida.
IL BIGLIETTO: «OK DAL MINISTRO»
In quello del 26 giugno si puntava a non rinnovare i decreti di 41bis emanati dal Dap, a procrastinare solo quelli per «detenuti di particolare pericolosità» per evitare di «inasprire inutilmente il clima negli istituti di pena» così da lanciare «un segnale positivo di distensione». A chi era diretto il segnale, si domanda Amato, posto che vi era un biglietto con su scritto «l’onorevole ministro è d’accordo»? C’entrano niente le riserve del capo della polizia (come riferito da Capriotti nella sua audizione in Antimafia) e del Viminale sul 41bis? Di fronte a tante evidenze, insiste Amato, come fa l’ex ministro Conso a sostenere d’aver fatto da solo all’insaputa del Dap? «Quali altre iniziative o responsabilità il ministro ha inteso coprire con la sua generosa, ma inesatta assunzione di una “piena responsabilità” diretta e personale?».
IMBARAZZO E BUGIE DI CONSO
Chiosa l’ex direttore del Dap. «Mi ero sempre chiesto perché mai Conso sviasse il discorso e non volesse pronunciarsi sul mio appunto del 6 marzo 1993 (dove chiedeva spiegazioni sulle riserva di Parisi e il Viminale, ndr) nonostante glielo avessi consegnato personalmente (...). Solo ora capisco il drammatico imbarazzo che ho cagionato, proponendo, pochi giorni dopo la lettera di Cosa nostra, addirittura un inasprimento del trattamento penitenziario per i suoi detenuti. Giacché Conso non poteva certo dire di no a una richiesta di maggiore severità nei confronti della criminalità organizzata. Ma non poteva neppure dire di sì, stante la preoccupazione – a me ignota – di non accentuare ulteriormente lo scontro aperto con la lettera appena arrivata». E così, per togliersi dall’imbarazzo, «Conso ha scelto il silenzio, lasciando l’appunto nel cassetto». La scelta era già stata fatta. Ma Amato non lo sapeva. Il suo tempo al Dap era finito con la lettera dei mafiosi della quale nessuno gli parlò.
IL SEGRETARIO GENERALE SAPEVA
Anche perché, come «fa chiaramente intendere Gaetano Gifuni» segretario generale sotto Scalfaro e Ciampi «tutti sapevano che ciò sarebbe equivalso a buttare la lettera là dove meritava di finire», e cioè «nella pattumiera». Interrogato a Palermo, Gifuni ha affermato di non sapere perché Amato venne sostituito anche se ha confessato che era notorio il fatto che «caratterialmente veniva considerato spigoloso e non particolarmente collaborativo». Dunque, non utile alla causa? Amato ne è convinto. «Difficile che Gifuni, così vicino a Scalfaro e Ciampi, non conosca la vera ragione della mia destituzione (...). Si è trattato di una motivazione inconfessabile, che nessuno, pur conoscendola, rivelerebbe, per pudore o vergogna, preferendo, come qualcuno ha già fatto, di portarla con sé nella tomba». Il riferimento a Scalfaro non è casuale.
E così «per un meccanismo dell’inconscio che avrebbe reso felici Freud e Reik, Gifuni, mentre dice di ignorarla, in realtà, rivela, sia pure in una forma allusiva destinata a smorzarne l’impatto dirompente, la vera ragione della mia destituzione, identificandola nella mia indisponibilità a collaborare con chi mi avesse chiesto cedimenti, rinunce o compromessi. Occorreva solo mandarmi via, subito, in silenzio». Così è stato.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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