Roma - «V-i-v-a-l-d-i». Prima che gli staccassero il ventilatore Piergiorgio Welby aveva chiesto la musica di Vivaldi. Ma non si trovava da nessuna parte. Gli hanno messo su Bob Dylan e lui, immobilizzato, ha fatto cenno con gli occhi che andava bene. Sì. Gli è stato staccato il ventilatore. Era tutto deciso. Nello stesso istante è iniziata la sedazione, un cocktail di farmaci iniettato per vena. Fino all’ultimo voleva stare vicino ai suoi cari. L’ha scelta lui quella «contemporaneità». Per rendersi conto. «Mi devo concentrare sulla mia morte, è la prima volta che muoio», aveva detto poco prima con movimenti della bocca che solo la moglie Mina sapeva tradurre.
Se n’è andato alle 23.40. Tecnicamente per arresto cardiocircolatorio. Ma Piergiorgio Welby, il malato di distrofia muscolare che 89 giorni fa aveva chiesto di morire in una lettera al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, e poi l’aveva chiesto ancora, ogni giorno, a medici e politici, è morto per un intervento esterno: il distacco del ventilatore polmonare operato dal medico anestesista rianimatore Mario Riccio di Cremona. Così aveva chiesto Welby, in lettere e ricorsi. Così ha fatto il dottor Riccio. La sedazione è durata quaranta minuti prima della morte.
Nella stanza, oltre al medico che ha staccato il ventilatore, c’erano la moglie di Welby, Mina, la sorella Carla, i radicali Marco Pannella, Marco Cappato, Rita Bernardini, segretaria dei radicali italiani e Maria Antonietta, la vedova di Luca Coscioni. L’annuncio è stato dato in diretta a Radio radicale da Marco Pannella. In conferenza stampa, alla Camera, i radicali hanno spiegato i dettagli della morte assistita. E hanno rivendicato come è morto Welby.
Welby è morto perché «non voleva sentire ragioni. Diceva: “Si deve fare” - racconta Pannella -. Nell’ultimo abbraccio gli ho detto: Hai visto, tu pensavi che scherzassimo». E invece nessuno scherzo, l’hanno aiutato a morire per davvero.
Due mesi fa era arrivato a staccarsi da solo il respiratore in un movimento di rabbia che era stato un miracolo, per lui paralizzato. «E questo aveva necessitato quaranta giorni di medicazioni», ricorda Cappato, presidente dell’associazione Luca Coscioni. La sua agonia ha innescato un dibattito parlamentare e per questo, fino all’ultimo, «gli abbiamo chiesto che per raggiungere certi obbiettivi era necessario che la sua lotta continuasse. Siamo più forti con te, gli dicevamo». Ma lui ha risposto «che non poteva più stare nel braccio della morte».
Fino all’ultimo «è stato un grande regista, mio fratello, ha voluto rendersi conto di tutto, salutare tutti», racconta la sorella Carla. Salutare con gli occhi, perché quello era il suo modo di comunicare. Poi il dottor Riccio ha eseguito ciò che aveva scelto di fare. Sedare e staccare.
Era stato il medico di Cremona ad inviare una mail all’associazione Luca Coscioni e a rendersi «disponibile» a staccare il ventilatore dopo aver sentito la storia di Welby e le sue sofferenze. È arrivato a Roma lunedì «e quel giorno ho conosciuto Welby, anche se avevo già letto un suo libro e mi ero informato su di lui. Mi ha confermato la sua volontà che gli fosse interrotta la ventilazione in corso di sedazione. Ieri sera, come Piergiorgio ci ha chiesto, l’ho fatto». Il giorno, l’ora, non hanno nessun significato. «La scelta non è stata regolata dai tempi della politica e della magistratura», ha chiarito Cappato.
Welby chiedeva addirittura che il distacco della ventilazione fosse precedente la sedazione. Ma questo era «improponibile dal punto di vista deontologico e giuridico», spiega il medico. Avrebbe sofferto troppo. Ma chi può dire se quella contemporaneità non sia stata l’ultima sofferenza? Però l’aveva chiesto Welby: era il compromesso di una morte concordata. Il medico avrebbe preferito anticipare la sedazione, per poi staccare il ventilatore. Welby voleva assumere il cocktail per bocca, si è scelta invece la sedazione per vena.
«Chi di noi, o nelle nostre famiglie non ha mai detto al medico di un caro malato: Se proprio non ce nulla da fare, lo faccia soffrire il meno possibile.
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