Interventismo Quando le grandi firme le sparavano grosse

Le parole sono pietre, senza dubbio. Ma possono essere anche pallottole e bombe, quando esortano alla guerra. Di più, quando la considerano, oltre che giusta, bella e purificatrice. Da questo punto di vista, il primo conflitto mondiale costituisce uno spartiacque epocale. Dopo, nulla sarà più come prima. Sul pianeta e anche nelle coscienze di chi ne parlò in termini compromettenti. Secondo Stefan Zweig (1881-1942) «ciascun individuo era chiamato a gettare nella grande massa ardente il suo io piccolo e meschino per purificarsi da ogni egoismo». Thoman Mann (1875-1955) non fu da meno anche dopo, a giochi fatti: «Era la guerra di per se stessa ad entusiasmare i poeti, la guerra quale calamità, quale necessità morale». Da parte sua, Max Scheler (1874-1928) fornì una giustificazione (anzi una motivazione, alla quale sarebbe stato del tutto inutile opporsi) della guerra in termini prettamente filosofici, di chiara radice vitalista e nietzscheana: «Tutto ciò che è morto o meccanico cerca solo di “conservarsi” mentre la vita o cresce o si spegne». E Martin Buber (1878-1965) diede di quell’imminente disastro una lettura strumentale: sarebbe servito a compattare le file degli ebrei.

Ma a seguito della prima, avemmo la seconda catastrofe, dopo un intervallo talmente breve da poter essere considerato un’instabile e pressoché inutile tregua. E se allora l’ebreo Sigmund Freud (1856-1939), secondo il suo biografo Ernest Jones, «disse di sentirsi tedesco per la prima volta in trent’anni», la Storia, cinica e crudele, non gli diede il tempo di pentirsi.

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