Gli intramontabili Deep Purple al Palalido

La leggendaria band inglese è nata nel 1968: da allora ha macinato milioni di dischi

Antonio Lodetti

Il rock ha una certa età, inutile nasconderlo, ma invecchia bene se a rappresentarlo sono vessilliferi agguerriti come i Deep Purple, stasera in concerto al Palalido. Hanno accorciato la tournée italiana (solo Roma e Milano malgrado le date annunciate) per superlavoro («Siamo in giro da due anni», ha detto il bassista-fondatore Roger Glover) ma annunciano un concerto all’insegna dell’hard rock duro e puro, quello che non conosce il passare del tempo e della moda.
Insieme a Glover c’è ancora la potentissima e isterica voce di Ian Gillan (quella che con gli acuti di Child In Time ha consegnato alla storia un album come Deep Purple In Rock) e la granitica batteria di Ian Paice più le tastiere di Dan Airey (ex Black Sabbath erede dell’alchimista Jon Lord) e la funambolica chitarra di Steve Morse (un curriculum lungo così e una militanza nei Kansas) che dal ’94 è nel gruppo, ché Ritchie Blackmore - insieme alla moglie - ora si dedica alla chitarra acustica e soprattutto alle melodie rinascimentali.
Nonostante vari cambiamenti di organico (oltre ai tre del nucleo storico siamo all’ottava incarnazione, nella band hanno transitato nomi altisonanti come Joe Satriani e Ronnie James Dio) i Deep Purple sono sinonimo di continuità e coerenza stilistica, di rock iperenergetico e aggressivo fortemente venato di blues, di ritmi tracotanti che a tratti sposano ariose melodie classicheggianti.
Pionieri delle contaminazioni tra rock e musica sinfonica (album come Gemini Suite e numerosi concerti con orchestra) sono pronti a guidare il loro affezionatissimo pubblico nei meandri di un repertorio che ha fatto la storia e con cui si confrontano ancora oggi centinaia di gruppi. Sono e saranno sempre animali da palcoscenico; non a caso il loro doppio dal vivo Live In Japan (targato 1973) ha fatto da corollario a una delle tournée più eclatanti di sempre.
Nel loro personale Guinness dei primati spiccano 100 milioni di album venduti e un inno come Smoke On the Water (brano che racconta l’incendio del casinò di Montreux, il cui riff chitarristico è ormai considerato il più bello e famoso della storia del rock) che spesso Morse utilizza in concerto come «juke box» per improvvisare sui temi di altre celebri canzoni. O ancora Highway Star, Black Night, Perfect Stranger, Junjyard Blues, la citata Child In Time, Speed King per arrivare ai brani del recente Rapture of the Deep che uniscono presente e passato con grande omogeneità e idee interessanti.


Avranno anche l’aspetto di vecchi pirati in disarmo, ma parlano il linguaggio del rock con l’entusiasmo e la carica emotiva dei ragazzini mischiati al mestiere e al virtuosismo dei professionisti di lungo corso: alla faccia (o all’insegna?) della nostalgia.

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