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«Io, nel giorno di bufera, inviata a Neirone per cercare mucche»

«Io, nel giorno di bufera, inviata a Neirone per cercare mucche»

di Maria Luisa Bressani

Il primo giornale che iniziai a leggere è stato Il Giornale. Allora volevo insegnare, ma il secondo anno d'insegnamento per entrare di ruolo, grazie ad una legge che premiava chi aveva conseguito l'abilitazione con esame (prima dei corsi abilitanti), non lo realizzai: in Provveditorato mi dissero che c'erano solo posti in riviera e con tre bambini, di meno di cinque anni, con pochi mezzi per pagarmi baby sitter mentre gli asili comunali erano per chi già lavorava, non potevo accettare. Giunta a casa mi telefonò la figlia della signora che gestiva la tintoria dove mi servivo a Nervi. Professoressa a Milano, ma cooptata in Provveditorato, mi avvertì che appena uscita, sbucò fuori un posto - imboscato - al Mazzini. Mio di diritto se avessi fatto ricorso. Ricorsi, vinsi, però avevo deciso di fare la mamma a tempo pieno, pur soffrendo. Dopo un corso di dattilografia incominciai a scrivere, con affermazioni in Premi Letterari (serie B).
Intanto leggevo «il Giornale». In casa mi prendevano in giro: «Cosa leggi? Solo Controcorrente, Torelli, la Stanza di Montanelli, le risposte dei lettori?». Invece incominciai ad appassionarmi all'economia di Zappulli e Ricossa, con Laurenzi autore di «Qualcuno ci sogna» sognavo anch'io, e mi affezionavo sempre di più a chi scriveva sul Giornale.
Un processo colpì un uomo - poi assolto perché «il fatto non sussiste» -, una persona perbene della cui devastante sofferenza fui testimone. Decisi di diventare giornalista, per tenere «la penna pulita» non come gli sciacalli dei 40 articoli in prima pagina e dell'assoluzione all'interno in poche righe. Volli però prima diplomarmi alla scuola di specializzazione dell'Università Cattolica. Mio padre diceva: «Sono un orgoglioso», mia madre: «Non mi piace essere sgridata», io, loro figlia, ero anche permalosa.
Da diplomata mi presentai alla redazione genovese de «il Giornale». Non potevo andare al Secolo XIX, allora con una deriva a sinistra, comunque più lieve dell'attuale di Repubblica. E quando anni dopo mi presentai per collaborare a Repubblica, vidi le redattrici più belle e più scosciate in minigonna che mi fosse capitato conoscere. Una ragazza che seguiva le mostre, intervenne ad una prima con la schiena «scollata giù, giù» come il noto abito di Mireille Darc. Pensare che oggi tuonano contro Berlusconi!
A farla breve, «il Giornale», cui avevo scelto di collaborare aveva come caporedattore Luigi Vassallo, ultimo direttore del Nuovo Cittadino su cui avevo fatto la tesi alla Cattolica (Il Cittadino, 1873-1974, che mi aveva guadagnato l'amicizia di monsignor Andrianopoli). Quando salii le scale della redazione Vassallo stava molto male e v'incontrai Zamorani. Questi volle insegnarmi, ma recalcitravo per giovane supponenza. Una volta assistei ad una telefonata con una collaboratrice per un articolo sugli aerei. Zamorani mi pare sia stato pilota o abbia militato in aeronautica. La collaboratrice non demordeva e lui, gocciando sudore, ripeteva: «Sbaglia, non è così».
A me aveva detto che ero «ostinata come un Kamikaze giapponese». Lo confidai alla figlia dei miei vicini di ballatoio, Alessandra Perrazzelli, oggi avvocato insignita del Premio Marisa Bellisario, che commentò: «Che complimento!». Lei appartiene ad un'altra generazione, io ne soffrii.
Un giorno mi presentai in redazione che aveva nevicato, in pelliccia e tacchetti cui allora non avrei rinunciato, confidando nella defezione di alcuni redattori e per aver qualcosa da scrivere.
Zamorani disse: «Ci sono mucche bloccate a Neirone. Lei ha una macchina?» «Una cinquecento posteggiata qua sotto» «Sa mettere le catene?» «Sì», mentii avendo solo letto sul come. «Vada!» «Devo cambiarmi», obiettai. Zamorani si fiondò verso uno stipetto da cui trasse un paio di scarponcini: «Dovrebbero essere della sua misura». Annaspai e mi ricordai dei figli, in verità già grandini. «Non ha a chi affidarli?» Telefonai a papà, sperando che impegnato ad assistere la mamma malata di Parkinson, dicesse «No», invece, amando «il Giornale», si offrì. E mi salvò Alberto Pastanella, giovane collaboratore: «Potrei andare io!». Fui salva anche se ci fu un'ultima proposta: accompagnare il capo della colonna di vigili, in jeep a Neirone. Rinunziai al servizio e non ne vidi a firma di Pastanella.
Al Giornale credo di essere stata ammessa a collaborare grazie a Merani che ripescò il mio primo articolo dopo un mese di giacenza.

Quando, avuto il benestare, ero scesa al bar sotto la redazione per fissare l'appuntamento con il funzionario in Regione che doveva darmi le notizie sull'equo canone (era il 1983), avevo visto un signore sorseggiare il caffè al banco che sembrava sbirciasse e ascoltasse. Poi lo riconobbi: Merani che scriveva con competenza, cuore e ironia. A lui l'indelebile riconoscenza che non dissi.

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