Irène Némirovsky, nella valigia dei sogni di una straniera in patria

Parigi - La valigia è questa qui, cinquanta centimetri di larghezza, profonda quaranta, alta meno di trenta. È di cuoio, così come il rivestimento del grosso quaderno che in essa era custodito, fitto di una scrittura minuta a doppia pagina in un bell’inchiostro color acqua marina. Mai nella sua disarmante normalità un semplice oggetto familiare ha saputo condensare una storia, una memoria, una scomparsa e una resurrezione. Se il nome di Irène Némirovsky è tornato a brillare è grazie al suo ruolo di custode del manoscritto di Suite francese, rimasto per mezzo secolo in questo spazio scelto a caso eppure come su misura. Le vie della letteratura sono infinite, misteriose e bellissime per quanto atroci.

Al Mémorial de la Shoah, la mostra «Irène Némirovsky: “Il me semble parfois que je suis étrangère”» (fino al 20 marzo) allinea documenti, fotografie, articoli, lettere, prime edizioni, manifesti cinematografici che ricostruiscono una vita all’insegna della differenza, se non della estraneità. Bambina, odia la sua infanzia, una madre che non la ama e che lei detesta, un padre perennemente in viaggio d’affari. Nata in Ucraina, è ancora adolescente e già la deve lasciare, la rivoluzione bolscevica che fa fuori l’odiata borghesia: ma lei, di origine ebrea, si sente comunque russa per caso, la sua prima lingua è il francese e la Francia la patria dell’anima. È a Parigi, dove i genitori si stabiliscono, che infatti studia e si laurea, pubblica i suoi primi racconti, fa il suo debutto in società, va a ballare e si innamora, si fidanza e si sposa, mette al mondo i suoi figli. Si sente francese, ma non lo è, non si sente ebrea, ma per gli altri lo è, ed è su questa duplice contraddizione che si dipana il filo tragico di una vita. Da David Golder a Il ballo, a I cani e i lupi il suo universo letterario è fatto di stranieri indesiderati e indesiderabili, raccontati senza pietà, ma con tenerezza, di una Francia in crisi economica e morale in cui lo specchio della xenofobia è quello dove ogni giorno i suoi cittadini si riconoscono.

Alle accuse di antisemitismo risponde indignata e insieme orgogliosa: chi critica la borghesia terriera della Francia profonda è per questo antifrancese? si chiede. Il compito di un romanziere è raccontare, creare dei personaggi, non preoccuparsi di una ideologia o di una politica. Una giornalista di L’univers israelite venuta a intervistarla dopo il folgorante quanto dibattuto successo del suo romanzo d’esordio, quel David Golder dove l’ossessione per il denaro del suo protagonista la fa da padrone, conclude a malincuore: «Certo, non è antisemita. Così come non è ebrea».
Nella Francia fra le due guerre, dove il meticciato ideologico regna sovrano e spesso si parte da destra e si finisce a sinistra, come Paul Nizan, da maurrassiano a comunista, o viceversa come Drieu La Rochelle, da socialista a fascista, la giovane Irène è naturaliter più vicina a chi dal comunismo è comunque più lontano: lo è in quanto esule da una nazione dove quel comunismo ha trionfato nel sangue, lo è per gusti, letture e frequentazioni, per stile di vita si potrebbe dire. La lotta di classe non le appartiene, la palingenesi sociale nemmeno. Allo stesso tempo è una narratrice pura e una narratrice di professione, la scrittura come mestiere quando le difficoltà economiche, la malattia del marito, cominciano a intaccare le risorse familiari.

In mostra c’è la lettera, ingenua e dolorosa, che Irène Némirovsky scrive al maresciallo Petain. È il 1940, Petain è da tre mesi il nuovo presidente del consiglio di una Francia sconfitta e occupata dai tedeschi, c’è stato l’armistizio e nel «nuovo ordine» che l’anziano ufficiale promette ai suoi connazionali si sa già che per gli ebrei non ci sarà posto. «Non posso credere, signor Maresciallo, che non si faccia alcuna distinzione fra gli indesiderabili e gli stranieri degni d’onore che, se hanno ricevuto dalla Francia un’ospitalità regale sono anche coscienti di aver fatto ogni sforzo per meritarla. Quanto a me, ho fatto del mio meglio per farla conoscere e amare». La Francia è il suo Paese, «perché Dio mio mi fa questo?» si chiederà due anni dopo, mentre lavora a Suite francese, il romanzo che scrive come se fosse «su una lava ardente» e che in cuor suo già sa non riuscirà a finire. «Poiché mi rifiuta, consideriamola freddamente, vediamola perdere il suo onore e la sua vita».

Via via che la rete della deportazione forzata si stringe intorno a lei e alla sua famiglia, Irène alterna delusioni e speranze. Continua a pubblicare, sia pure sotto pseudonimo, e quindi in qualche modo continua a esistere e forse la lasceranno vivere... Il suo nome non figura né nella prima né nella seconda «Lista Otto», dove c’è l’elenco degli scrittori ebrei messi all’indice, e questo vorrà pur dire qualcosa... Il suo editore, Albin Michel, nella persona di André Sabatier, che sovrintende alla narrativa, continua a darsi da fare, anche economicamente, amici come Hélène e Paul Morand, ben visti da Vichy e dai tedeschi, non l’hanno abbandonata... Il giorno in cui l’arrestano e la trasferiscono al campo d’internamento di Pithiviers, sul settimanale petainista Prèsent esce il suo ultimo racconto, Le vergini, firmato Dénise Mérande. «Guardatemi. Ora sono sola come voi, ma non per una solitudine scelta, ricercata, ma per la solitudine peggiore, fatta di amarezza e di umiliazione, la solitudine dell’abbandono e del tradimento». Di lì a pochi giorni sarà ad Auschwitz, tempo un mese morirà: di tifo, dice il certificato medico.


E la valigia? Quando dopo Irène verranno a prendere anche il marito, al momento di staccarsi dalla figlia maggiore, allora tredicenne, le sue ultime parole di padre saranno: «C’è la valigia che contiene il quaderno della mamma, non te ne devi mai separare». La scrittura come primo e unico rifugio, l’unica cosa che non l’avesse mai tradita, la sola cosa per cui valesse ancora la pena di lottare.

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