Israele scongela i fondi, ossigeno per l’Anp

Il premier Olmert convinto dalle pressioni dei ministri degli Esteri e della Difesa

Luciano Gulli

nostro inviato a Gerusalemme

È difficile, in questo Paese, che un ministro della Difesa non abbia voce in capitolo. Così, quando la settimana scorsa si vide Shaul Mofaz sostenere con forza che era opportuno dare ai palestinesi quel che è dei palestinesi (ovvero i denari mensili rivenienti dalle tasse e dai dazi doganali riscossi da Israele per conto dell'Anp) l'incertezza di Ehud Olmert (incertezza virata poi in irrigidimento) aveva suscitato una certa impressione.
I dubbi del primo ministro ad interim, cinque giorni dopo il pronunciamento di Mofaz, restano. Ma il governo, ed è quello che conta, ha deciso di fare marcia indietro, scongelando quei fondi e consegnandoli al legittimo proprietario. In ballo ci sono la bellezza di 250 milioni di shekel (40 milioni di euro) che a Ramallah aspettano con la stessa ansia con cui un uomo scampato a un incendio cerca una boccata d'ossigeno. Stando alle anticipazioni fornite ieri dal quotidiano Haaretz, Olmert non è «particolarmente entusiasta» di fronte alla prospettiva. Ma è altrettanto certo che domani, alla consueta riunione del governo, finirà per capitolare di fronte alle pressioni che vengono dagli apparati di sicurezza. Quei denari dunque rifluiranno mercoledì, come previsto, nella cassa dell'Autorità palestinese, attualmente vuota come una campana senza battaglio.
Non è un gesto di generosità, o di carità pelosa, quello che si accinge a compiere Israele. Ma un atto di squisito interesse nazionale. Senza quei fondi, difatti, l'Anp sarebbe costretta a dichiarare bancarotta nel volgere di una manciata di giorni (come sanno bene alla Banca Mondiale). E con un governo in bancarotta si può capire la formidabile bolgia e i disordini generalizzati che la «prospettiva strangolamento» potrebbe innescare.
I fondi erano stati congelati sul finire del mese scorso dopo la sorprendente vittoria di Hamas alle elezioni. Il timore, ovviamente, era che quei denari fossero dirottati dalla nuova dirigenza per impinguare gli arsenali di un partito che predica la distruzione dello Stato di Israele. Ipotesi non del tutto peregrina, ovviamente. Sta di fatto che ci vorranno settimane prima che gli uomini di Hamas possano insediarsi al potere. E che sarà pertanto il vecchio establishment dell'Autorità, presieduta da Abu Mazen, ad amministrare quei fondi. Di qui la capitolazione di Olmert di fronte ai suoi generali e ai responsabili dei servizi segreti.
Anche il nuovo ministro degli Esteri, la signora Tzipi Livni, ha mutato parere sull'argomento. Ora, rinfrancata dalla pressione internazionale esercitata su Hamas perché muti il suo atteggiamento nei confronti di Israele, anche lei ha dato il via libera al trasferimento dei fondi.
Chi strepita, naturalmente, sono gli esponenti del Likud, il partito rimasto in mano a Bibi Netanyahu. La protesta è stata affidata alla tromba di Gideon Saar, uno degli oltranzisti del partito che fu di Sharon. Non è per caso, naturalmente, che la protesta sia stata «veicolata» attraverso Canale 7, la radio di quei coloni che da mesi sono in urto frontale con il governo Sharon (e la sua epitome olmertiana, che del vecchio leader in coma all'ospedale Hadassah segue pedissequamente le linee guida). Nell'intervista, Gideon Saar accusa Olmert di aver oggettivamente favorito il successo di Hamas con la politica del disimpegno e del ritiro unilaterale da Gaza. «Adesso Olmert regala a Hamas una legittimazione internazionale - ha aggiunto Saar - e contribuisce a rafforzare un futuro Stato islamico che metterà in pericolo la sicurezza di Israele».
Può essere che il Likud abbia ragione. Ma è la scelta del mezzo che risulta piuttosto infelice, agli occhi dell'opinione pubblica israeliana. Perché la gente comune comincia ad averne le tasche piene della burbanza dei coloni; soprattutto dopo la sanguinosa resistenza messa in atto mercoledì scorso nell'insediamento di Amona contro i poliziotti e i soldati che avevano il compito di abbattere nove villette vuote e abusive.
Sicché nessuno ha protestato, ieri, quando l'esercito ha comunicato di aver abbandonato a se stessi, come acrobati senza rete, gli ultrà di Itzhar, insediamento piazzato a un tiro di schioppo dalla palestinese Nablus. Da ieri, quelli di Itzhar dovranno alzare segnali di fumo (si fa per dire) se si troveranno nei guai. Il comando di zona, del resto, non ne poteva più. Incidenti fra soldati e coloni ce n'erano già stati, nei mesi seguiti al ritiro da Gaza. Ma tre giorni fa, dopo che un soldato di guardia era stato menato di brutto da una decina di coloni, l'ufficiale di guardia al bidone di Itzhar, d'accordo con i suoi superiori, ha deciso che era stato passato il segno.

Per tutta risposta, un portavoce dei coloni ha rovesciato nuove contumelie su chi finora ne ha tutelato l'incolumità, accusando i soldati di aver «dimenticato che il loro compito è di combattere i terroristi palestinesi, non gli ebrei».

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