Ivan, il poeta «d’assalto» difeso anche dai vigili

Cresciuto alla Barona, Tresoldi compone sui muri e le saracinesche «Se qualcuno si arrabbia, io smetto. E i ghisa stanno dalla mia parte»

Marco Guidi

Dappertutto regnano le parole. Centinaia di romanzi e antologie di poesia affastellati sugli scaffali. Segnate a pennarello su cartoncini che avvolgono le pareti, citazioni beat di Kerouac e Ginsberg, versi di Prévert e Mahfuz. Nella casa-laboratorio in Ripa Ticinese, Ivan Tresoldi, poeta delle saracinesche, abbozza aforismi e filastrocche su notti qualunque, emarginati e innamorati, momenti di dolce malinconia.
Capelli lunghi e barba ispida, vernice sui vestiti e sulle mani, il ventiseienne milanese sorride: «Quando il primo assalto poetico? Estate 2003. Prendo un pennello e su un lenzuolo scrivo: “Chi getta semi al vento farà fiorire il cielo”. Poi lo attacco sulla darsena a ciondolare. Passano un paio di giorni, il cartellone non viene rimosso. Su di un giornale esce la foto. Al quartiere l'idea piace. Allora dipingo la mia “scaglia” direttamente sul parapetto».
Due mesi e Fabio Volo riproduce la frase sul retro della copertina del suo cd. Ivan apre un sito e continua a scribacchiare pensieri su tovaglioli e lavagnette, in metro o in tram. Poi la domenica mattina, vernice e pennello sottobraccio, adocchia serrande malconce di esercizi sfitti e compone: «Una pagina bianca è una poesia nascosta». «Il futuro non è più quello di una volta». «Chi pesta i piedi fa tamburo del mondo». Non solo scaglie. Pure canzoni: «Se vincessi un miliardo a biliardo mi comprerei tutte le guglie del Duomo (…) Se vincessi un miliardo a biliardo andrei sulla luna per aprirci una pasticceria (…) Se vincessi un miliardo a biliardo raccoglierei venti puttane e le riaccompagnerei a casa loro».
Ivan adatta aforismi e canzoni al numero di listelli delle cler. «La città ha delle forme - spiega appollaiato sullo sgabello - la poesia in strada è una relazione dialettica. La strada ti obbliga ed è obbligata. Non l'ho inventata io, la poesia urbana. Si va dai greci ai romani, passando per i manifesti futuristi, fino ai Pm, ragazzi di Torino che attaccano “rotolini” di poesia per strada. Ma io porto i miei contenuti civili: voglio descrivere l'invisibile. Quel calore umano che incontro negli occhi di chi incrocio in giro». Ma qual è l'obiettivo del ragazzo cresciuto alla Barona? «Diffondere un messaggio. E quando molti altri mi imiteranno, l'assalto poetico avrà avuto successo. Ivan, l'artista, avrà raggiunto il suo scopo e non avrà più ragione di esistere».
Ma per ora l'opera continua. E prosegue di giorno, alla luce del sole. «Non sono un “writer”, ci metto la faccia. Sempre. È una questione di responsabilità. Faccio una cosa conflittuale, confrontandomi con gli altri, in prima persona. A volte ho “tirato grigi” dei lavori, ho piantato lì dopo che sono scesi condomini a strillarmi contro. Ai mercati di Porta Genova, invece, i ghisa mi hanno protetto, assicurando che se fosse arrivata la polizia avrebbero spiegato loro cosa stavo dipingendo. Relazionandoti trovi l'uomo dietro la divisa. La persona dietro il condomino. Io non occupo una superficie, mi rapporto a un territorio».
Due grandi case editrici italiane volevano pubblicare la sua produzione «saracinescheraria».

Ma lui, i suoi versi sociali, preferisce condividerli direttamente coi passanti: «Il libro ha un costo e si trova in un negozio: non è accessibile a tutti». Ivan ama esporli gratuitamente. Anche a mostre come la Sweet art, Street art del Pac di Milano. La prossima ode sulla cler? Le due serrande del Libraccio in Porta Genova sono avvertite.

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