IVANA MONTI Testimone del mio tempo

«Vivo a Roma per mio figlio, ma la mia casa resta in piazza Vetra»

IVANA MONTI Testimone del mio tempo

Quando nel 1966 Giorgio Strehler la vuole per interpretare Maddalena ne I giganti della montagna di Pirandello, Ivana Monti ci riflette. Poi al maestro dice un bel no. Perché quella ragazzina che fa scuola di mimo è già un tipo deciso e siccome deve fare la maturità, non può perdere la concentrazione. Strehler fa tanti altri provini. Ma alla fine s'impunta e ordina: «Deve venire l'Ivana». E allora l'Ivana va. E l'incontro diventa uno dei ricordi più nitidi della sua vita teatrale: «Io non lo avevo mai visto e me lo immaginavo come Orson Welles: un gigante, un Falstaff corpulento, da fiaba. Invece entro al Lirico e vedo due figurine magre magre, una vestita color vinaccia e l'altra tutta di nero. Lei era Nuccia Fumo, lui era Strehler. Mi sembrò uno gnomo, una cosa delicata, fragile, con quei capelli turchini: “Ciao, Maddalena”, mi disse».
Ivana Monti ama parlare dell'oggi, sentirsi immersa in un teatro della contemporaneità, secondo la promessa che fece al marito Andrea Barbato, scomparso undici anni fa, di essere testimone responsabile del suo tempo. Ma poi non può fare a meno di ripetere, come in un mantra protettivo, che «viene dal Piccolo» e che ha anche conosciuto il primo abbonato, il signor Luciano Bossa.
Ma cos'aveva quel Piccolo Teatro di così magico?
«Prima di tutto i milanesi. Erano i cittadini a fare il teatro, consapevoli di partecipare a una storia. Poi Strehler, che ci diceva: Voi siete attori, ma non interpretate voi stessi, bensì l'umanità, in tutti i suoi orrori e speranze. Poi Paolo Grassi e Nina Vinchi, che ci hanno spinto ad uscire dal teatro e a portarlo ad Affori, in piazza Cuoco col tendone. A portare la cultura in giro, alla gente, dal centro alla periferia. Il Piccolo Teatro era il cervello, il significato di una comunità».
E oggi chi è il cervello e il cuore del teatro, a Milano?
«Quelli erano spiriti magici, che venivano dalla guerra, che hanno inventato la vita dopo la morte. Oggi ci sono persone che cercano di tenere vivo quell'insegnamento. Una è André Ruth Shammah. Eravamo compagne in Accademia, l'ho reincontrata nel 1999 e professionalmente non ci siamo più lasciate. In questi anni mi ha insegnato una cosa grande: l'importanza della quotidianità. Dire cose fondanti come se si stesse bevendo un caffè».
Però il caffè a Milano ormai lo prende solo per lavoro…
«Dopo la morte di Andrea sono stata costretta a prendere la residenza romana, per curare mio figlio. Prima non mi sarebbe mai venuto in mente di farlo e questo la dice lunga sul mio legame inscindibile con Milano. I romani, però, rispetto a noi, sentono di più il senso di appartenenza, di un destino comune di cittadini. Una specie di abbraccio»
Ma lei si sente abbracciata solo da Milano.
«La mia famiglia di origine è qui, la mia casa in piazza Vetra è il luogo che desidero rivedere, insieme alla mia periferia sironiana di piazzale Corvetto, il luogo del mio orgoglio e dell'amor proprio».
E da vent'anni si porta nel cuore uno spettacolo sulla città.
«Da realizzare al Franco Parenti, con grandi attori milanesi. Spero sarà pronto nel 2008».
L'ultimo ruolo in cui la Shammah l'ha diretta è una madre. Ci ha messo una parte di sé?
«La madre de “Le cose sottile nell'aria” incarna le fatiche di una vita. Ormai mio figlio Tommaso ha diciotto anni, scrive, ha fatto un corso di regia, mi ha aiutato con qualche messa in scena. Ma la mia maternità è stata un massacro: non è vero che con i figli non conta la quantità, ma la qualità del tempo. Bisogna che le madri possano esserci di più. Che nessuno si vanti di essere il motore della famiglia: sono le madri che si sfiancano. E meritano diritti, non beneficenza».
Il ruolo di madre le è toccato anche in due fiction. Ha sentito la differenza con il teatro?
«La madre di Distretto di polizia, che ho accettato perché c'era Isabella Ferrari, straordinario campione di antiretorica, mi ricordava la mia difficile vita di vedova. Quella di Incantesimo, un po' pazzoide, l'ho fatta solo perché la prima frase del copione faceva presagire un'anti-madre, visto che lei rifiutava alla figlia - incredibile! - di accompagnare la nipotina a scuola. La differenza nei ruoli si sente eccome, eppure mi creda, anche le fiction hanno qualcosa da insegnare: senza aver fatto Incantesimo non avrei mai potuto “governare” il ruolo di quest'ultimo spettacolo».
In cui recupera un forte accento milanese.


«Per una milanese non c'è niente di più bello che parlare con la cadenza della propria infanzia. Scatta il confronto sentimentale con quello che allora ti immaginavi avresti fatto. E ti ritrovi lì con te bambina, sul palcoscenico con il tuo quartiere».

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