Cultura e Spettacoli

JACQUES RIGAUT Le ceneri di un fuoco fatuo

Una raccolta di scritti dell’alter ego che La Rochelle usò come modello per il suo libro

All’alba del 5 novembre 1929 Jacques Rigaut rientrò nella casa di cura del dottor Henry Le Soveureux alla Vallée aux Loups, una sorta di centro clinico e artistico, medico e mondano allestito in quella che una volta era stata la dimora di Chateaubriand. Stava ancora provando a disintossicarsi, alcol, cocaina, oppio, morfina, eroina, e la Vallée era l’ultimo indirizzo di un «tour» che l’aveva prima portato a Sainte-Mondé, poi a Malmaison, infine a Auteil, tante tappe raggiunte e bruciate, tante cure iniziate e mai finite.
Era cominciato tutto che aveva vent’anni, ma ora che ne stava per compiere trenta, il fisico l’aveva d’improvviso abbandonato, collassi, svenimenti, delirium tremens: era in casa di amici e all’improvviso si accasciava, era a teatro e si addormentava, era al ristorante e la testa gli cadeva nel piatto... Quella che una volta era stata la sua arma più seducente, l’elegante impassibilità di chi non può essere toccato da niente e da nessuno, era solo un ricordo e più di una volta, andando via dai luoghi dove aveva trionfato come signore dello stile, bar, club, ristoranti, sale da tè, salotti, cenacoli letterari, bordelli, aveva sentito il pettegolezzo feroce o il malinconico sussurro che ormai lo accompagnava: «Come si è ridotto»... «È un uomo finito»... «E pensare che era così affascinante, così bello»...
Così, rientrato nella sua camera, una bella camera ordinata e pulita le cui finestre davano sul bosco che circondava l’edificio, si sdraiò restando vestito di tutto punto, la cravatta perfettamente annodata, e con un regolo misurò accuratamente la posizione del cuore. Dopodiché frappose fra questo e la canna della pistola un cuscino e poi premette il grilletto. Di sé aveva detto: «Provate, se potete, a fermare un uomo che viaggia con il suicidio all’occhiello». Non ci aveva provato nessuno, forse perché in vita nessuno aveva pensato che parlasse seriamente. Divertente, certo, seduttore, sicuramente, dandy, senza dubbio... Ma nella Parigi intellettuale e mondana fra le due guerre, dadaista e surrealista, anarchica, maurrasiana e gauchiste, era stato quello il suo ruolo: un compagno di strada, un perturbatore, un brillante generico... Quanto al resto, la scrittura, le polemiche e i sodalizi artistici, l’approfondimento filosofico oppure ideologico, non era riuscito nemmeno a ergersi al rango di mancata promessa e l’unica certezza consisteva nell’essere, in quel campo, un fallito.
Ammazzandosi, Jacques Rigaut gettò la propria morte in faccia a tutti quelli che del cinismo, del disprezzo della vita, del sentirsi superiori rispetto alla morale piccolo-borghese corrente, il lavoro, la fatica, il posto, avevano fatto il loro teorico credo esistenziale. «Vediamo se sapete fare altrettanto» era il messaggio, «vediamo alla fine chi è rivoluzionario e chi no».
Adesso che un piccolo editore presenta una raccolta dei suoi scritti, sotto il titolo riassuntivo di Agenzia generale del suicidio e la fa uscire in contemporanea con Tre suicidi Dada?, un volumetto con testi di Jacques Vaché, Arthur Cravan e, appunto, Jacques Rigaut (Le nubi, rispettivamente, pagg. 88, euro 12 e pagg. 92, euro 12) vale la pena cercare di capire il perché e la portata di quel gesto in particolare, il clima culturale e sociale che fece allora del suicidio una sorta d’opera d’arte.
Nella sua Anthologie de l’humour noir, uscita all’inizio della Seconda guerra mondiale, André Breton, il papa dei surrealisti, mise tutti e tre quei nomi sotto l’egida del suo movimento, una cooptazione postuma e per alcuni versi arbitraria. Alla fine degli anni Trenta il surrealismo è un cadavere in buona salute: minato dai dissidi interni e da una crisi creativa, svuotato da una diaspora ideologica, rappresenta poco più che il suo fondatore. Costretto a ritornare alle origini del movimento per cercare di contrastarne l’emorragia, Breton sa perfettamente che lì, all’inizio, c’è un’altra cosa, c’è il dadaismo, ovvero il niente per eccellenza, l’anti per definizione. Dada è morto per mano del suo fondatore, Tristan Tzara, nel momento in cui c’è stato chi, Breton in testa, ha cercato di passare dal gioco assoluto, puro e gratuito, alla sua codificazione, alla corrente, al gruppo, all’imposizione dogmatica. Se c’è una cosa a cui il surrealismo si è dimostrato refrattario, nonostante tutte le sue teorizzazioni sul tema, è stato proprio l’umorismo, confuso con il sarcasmo, l’ingiuria, la satira nei momenti migliori. Un classico esempio di suicidio surrealista non è Cravan, scomparso in mare in circostanze misteriose nel 1918, o Vaché, fulminato da un’overdose nel 1919, ma René Crevel, il povero Crevel che nel 1935, nel dissidio inconciliabile fra Breton e Aragon, fra arte e rivoluzione bolscevica, fra antipolitica e «tutto è politica», fra Freud e Stalin, non trova altra soluzione che avvelenarsi con il gas, esempio estremo di humour noir, scacco matto alla letteratura come professione e alla ideologia come palingenesi, che in quella antologia però non troverà spazio.
E Rigaut? La paginetta introduttiva di Breton si accontenta del ritratto-santino del dandy cinico e disilluso, per il quale vivere o morire è lo stesso, dipende dall’umore di una sera, impassibile e quindi non feribile. Tutto qui? Era davvero così?
Se Rigaut è sopravvissuto ai suoi scritti, non sufficienti a farlo ricordare, e ai suoi esegeti interessati per questioni di bottega, il merito è di Drieu La Rochelle. Più si scava negli anni Trenta e più quest’ultimo assume una funzione di crocevia, di catalizzatore di esperienze, di emblema di una crisi che è morale e sociale, religiosa e politica. Drieu e Rigaut erano stati amici, ma l’amicizia significava per il primo qualcosa di diverso dal limitarsi a condividere un pezzo di strada insieme, ovvero libri, donne, passioni intellettuali e/o mondane: amicizia voleva dire giudicare, penetrare a fondo nell’animo dell’altro, comprendere ma non scusare, avere pietà ma non compassione. Quando Rigaut era ancora vivo, Drieu ne aveva fatto il protagonista di un racconto fortemente critico, La valise vide, «La valigia vuota»; una volta morto sarà il modello per un primo abbozzo narrativo, Adieu a Gonzague, «Addio a Gonzaga», e poi per un capolavoro assoluto, Le feu follet, «Fuoco fatuo». La tragica, incompresa grandezza di Rigaut è qui, senza sconti e senza interessi di parte.
Il perché di questa amicizia e della necessità di un omaggio postumo sta nel fatto che Drieu era «anche» Rigaut, era il suo gemello conosciuto e temuto, una specie di alter ego, lo specchiarsi narcisistico nella propria immagine, sapendo però che se si fosse cercato di prenderla ci si sarebbe persi. Entrambi erano ossessionati dal denaro, ma per liberarsi dalla schiavitù del bisogno erano finiti in quella del benessere, mantenuti da mogli, da amanti. Entrambi erano reduci di guerra, e quello era stato l’unico momento in cui si erano sentiti veramente vivi, avevano veramente aderito alla realtà delle cose. Entrambi erano percorsi dall’idea del suicidio, come la forma più assoluta di difesa dell’io. E poi, e naturalmente, c’era in comune la prestanza fisica, il fascino, il dandismo dell’eleganza e della seduzione, la capacità di stupire, soprattutto la stanchezza di vivere.
C’è però qualcosa che Drieu ha e che a Rigaut manca, ed è il talento. Hanno buon gioco i surrealisti a dire che anche come si vive può essere un’opera d’arte, ma l’accento messo sulla gratuità del primo, sull’importanza del disimpegno, della futilità, dell’insensatezza lo trasforma di fatto in una iconoclastia da poveracci, in un ribellismo stanco e ripetuto, più miserevole che grandioso. Drieu dubita del suo talento, ma non rinuncia: affronta il fallimento, non lo teme e anzi per certi versi lo magnifica, «i falliti, che gente deliziosa: sono loro che rendono gradevole il mondo...», però non si crogiola all’idea, caparbiamente cerca una strada attraverso la quale la contemplazione e l’azione trovino una simbiosi, la parola si trasformi in atto. Rigaut no, a Rigaut il talento manca, ma ha il torto di parlarne, finge di trasformare quella che è una mancanza in una scelta, «scrivo per vomitare», ma se può barare con gli altri non lo può fare con sé stesso. Non avendo passioni, è preda dei vizi. Il bere, il giocare, la droga, il sesso, sono palliativi infantili e che hanno una loro tragica grandezza solo fino a quando la sanità fisica sembra ogni volta trionfare su di loro, rinascere a ogni morte apparente. Dopo no, dopo c’è solo la malattia, la dipendenza, la decadenza: è sempre più difficile ricominciare, non si riesce più a smettere, è impossibile stupire.
L’Alain di Fuoco fatuo è il Jacques Rigaut che alla fine è consapevole dei propri limiti, ma ha anche sperimentato sulla propria pelle l’indifferenza degli altri e la crudeltà amorale del vivere quotidiano. «Io mi uccido perché voi non mi avete amato, perché io non vi ho amato. Mi uccido perché i rapporti tra noi erano allentati, per rinsaldarli. Lascerò su di voi una macchia indelebile. Il suicidio è un atto, l’atto di coloro che non hanno saputo compierne altri».
Drieu si ucciderà quindici anni dopo e in questo ripetersi di modalità, di gesti, di interrogativi, ritornano come depurati e, per certi versi, nobilitati, gli elementi del suo «gemello» più giovane. Ciò che per il trentenne Rigaut era un «atto-disperazione o un atto-dignità.

Uccidersi significa convenire che ci sono degli ostacoli spaventosi, delle cose da temere, o soltanto da prendere in considerazione, un ripiego appena meno antipatico di un mestiere o di una morale, il compimento del gesto più disinteressato, purché egli non sia curioso della morte», per il cinquantenne Drieu è «la risorsa degli uomini la cui capacità di reagire è stata corrosa dalla ruggine, la ruggine del quotidiano», nonché la posta in gioco da onorare allorché sulla roulette della vita si sono puntate come fiches le proprie idee.

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