
E fu così che Jago incontrò persino il Caravaggio «per indagare la violenza silenziosa che permea la nostra società», come dice l'artista.
Jago, pseudonimo di Jacopo Cardillo, 38 anni, di Frosinone, è lo scultore contemporaneo italiano che, almeno negli ultimi dieci anni, ha fatto più parlar di sé. Ha iniziato l'Accademia di Belle Arti e usa il marmo e le tecniche tradizionali della scultura (ma poi documenta tutto sui suoi seguitissimi profili social). A 24 anni è stato selezionato da Vittorio Sgarbi per partecipare alla Biennale d'Arte di Venezia e il suo busto in marmo dedicato a papa Benedetto XVI gli è valso la Medaglia Pontificia: ancora oggi «Habemus Hominem» è uno dei suoi lavori più noti. E poi ancora, in ordine sparso: ha vissuto e insegnato a New York ed è stato il primo artista ad aver inviato una scultura in marmo nello spazio, nell'ambito di una missione dell'ESA, la European Space Agency. Per la cronaca, raffigurava il feto di un neonato e tornò sulla Terra custodita dal capo della missione del 2020, l'astronauta Luca Parmitano. Jago ha poi installato in piazza del Plebiscito a Napoli una sua personale riflessione sul lockdown e una sua Pietà a Santa Maria in piazza del Popolo a Roma. Da un paio d'anni ha trasformato, con il benestare della parrocchia, la Chiesa di Sant'Aspreno ai Crociferi, al Rione Sanità di Napoli, nello Jago Museum (molto visitato). Poche settimane fa la sua opera «Apparato Circolatorio» è stata svelata nel padiglione Italia all'Expo di Osaka, in Giappone, e ora eccoci a Milano, città in effetti ancora non toccata da questo scultore così nomade e prolifico, amato e seguito dal pubblico giovane. Il suo progetto «Natura Morta» «contamina» gli spazi Veneranda Biblioteca Ambrosiana con l'arte contemporanea: curata da Maria Teresa Benedetti e organizzata in collaborazione con Arthemisia, la mostra propone, da oggi e fino al 4 novembre, un confronto tra la celeberrima «Canestra di frutta» di Caravaggio, tra i capolavori più iconici della collezione del museo, e un'opera di Jago, una canestra colma di armi. Pistole, fucili, mitragliatori si ammassano nel cesto, simbolo di una natura contaminata dalla violenza. «Con quest'opera spiega Jago ho voluto indagare la violenza silenziosa che permea la nostra società, quella che non si manifesta solo nei conflitti armati, ma anche nel modo in cui trattiamo l'altro, nel rifiuto, nella sopraffazione quotidiana. Un cesto colmo di armi ci dice che il frutto del nostro tempo non è più la vita, ma la distruzione». La scelta del marmo, materiale nobile e quasi incorruttibile, è parte integrante del messaggio artistico di Jago: questa scultura all'apparenza tradizionale denuncia le ferite del nostro presente, un mondo dove la morte è diventata un prodotto di consumo un tanto al chilo. Ardito, e quindi potentissimo, il confronto diretto, in sala 1 dell'Ambrosiana, con l'opera del Caravaggio, emblema anch'essa della consunzione della vita: da un lato la denuncia della scultura contemporanea, dall'altro il mistero insondabile della pittura seicentesca.
«La natura non idealizzata, eppure innocente, di Caravaggio commenta il direttore della Pinacoteca Ambrosiana monsignor Alberto Rocca è spunto per creare un canestro non più colmo dei frutti della terra, bensì di sofisticati e artificiosi strumenti di morte.
La Veneranda Biblioteca Ambrosiana è ben lieta di presentare questa denuncia coraggiosa con una scultura che segna un ulteriore incontro fra passato e presente e che rinnova il linguaggio dell'arte, stimolando una critica intensa e attuale».
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