Da John a Dan, così una vita da "Fante" crea un vero antieroe

Il rapporto tra padre e figlio è centrale nell'esistenza, reale e letteraria, del creatore di Bandini

Da John a Dan, così una vita da "Fante" crea un vero antieroe
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Auspichiamo che non ci sia qualcuno, così sfaccendato, da voler quantificare gli ettolitri di inchiostro e il tonnellaggio di carta, adoperati per descrivere il rapporto tra padri e figli nella letteratura! Dal fardello del padre Anchise caricato sulle spalle dal figlio Enea alle preoccupazioni di Tolkien per il figlio Michael, dal 1941 cadetto ufficiale nel collegio militare di Sandhurst, il rapporto tra padre e figlio sembra esclusivamente imperniato sul trinomio autorità, apprensione, adulazione. Nulla di plastificato, si badi. Di schiaffoni, Dan Fante (1944-2015) ne ha presi tanti. Il padre, lo scrittore John Fante (1909-1983), non era uno che le mandava a dire. Vero e proprio "vaso di Pandora" perennemente scoperchiato, la vicenda umana e artistica del "Burro di Denver" è stata uno dei rari casi nei quali le pagine dei romanzi o dei racconti hanno riportato tutti, ma proprio tutti, i risvolti di un'esistenza fuori da qualsivoglia canone prestabilito, animata da un'unica, irredimibile vocazione, alla quale subordinare tutto e tutti: la scrittura.

L'alter ego letterario di John Fante è Arturo Bandini, un antieroe stridente con la società che lo circonda: figlio di immigrati dall'Abruzzo, muratore con velleità da esegeta del mondo, petulante, ribelle, legato tanto al culto dei Santi quanto a quello della bottiglia, megalomane e in lite con il mondo che non concede un solo millimetro alla realizzazione dei suoi sogni. Dopo aver letto un romanzo come Aspetta primavera, Bandini, dal 1938 entrato nel canone del ribellismo letterario alla Bukowski, dimenticatevi di antieroi "alla camomilla" come quel bonaccione di Trinità, recitato da Terence "faccia da schiaffi" Hill!

Eppure, anche il duro John non esitava a narrare, con maestria narrativa inarrivabile, le vicende degli italoamericani, in apparenza tutti infatuati da Joe Di Maggio e Frank Sinatra, dedicandole "a mia madre, Mary Fante, con amore e devozione; e a mio padre, Nick Fante, con amore e ammirazione". Per non tacere del quinto capitolo, laddove Arturo Bandini, ovvero John Fante, chiosava, a modo suo, il quarto comandamento, "poiché, anche se onorava suo padre e sua madre, gli disobbediva molto spesso". Solo la scrittura riusciva a dare ordine ad una vita chiassosa e disordinata. "Los Angeles è una città molto dura da conquistare. È troppo grande. Milioni di persone e nessun amico". Erano gli anni che seguivano alla "Grande Depressione" del 1929. Alla pari dei lupi affamati, John vuole mordere il mondo. Il padre Nick Fante e la madre Mary Capolungo rimarranno un approdo in un porto sicuro.

Cinquant'anni dopo, nel 1979, il destino non ha smesso di infierire. Dopo avere subito l'amputazione delle gambe a causa del diabete, John Fante diventava cieco. Ecco il miracolo: era giunto il momento di insegnare, al figlio Dan, come scrivere. Romanzi come Angeli a pezzi (1999), Agganci (2000) e Buttarsi (2002) avrebbero perpetuato l'eredità di una scrittura graffiante, mai supina al potere o al quieto vivere. Non bisogna costruire un alter ego, chiamato Arturo Bandini o Bruno Dante, per provare l'ebbrezza di una scrittura totale, vitale come l'aria che respiri.

La lettura dei romanzi di John e Dan Fante (celebrati in Abruzzo dal Festival "Fante di padre in figlio", fino al 27 luglio) può restituirci quel segnavia per distinguere, a nostro beneficio, lo scrittore di innato talento dal mestierante.

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