"Kafka, Cervantes, Joyce: gli autori pesanti sono i veri umoristi"

Lo scrittore racconta com'è nato il suo "Don Ponzio Capodoglio", romanzo sulla scia di Don Chisciotte e Dante

"Kafka, Cervantes, Joyce: gli autori pesanti sono i veri umoristi"

Giorgio Pressburger cammina per Trieste, alto e magro, anche se non proprio «alto alto, magro magro» come Ponzio Capodoglio, il protagonista del suo nuovo romanzo (Don Ponzio Capodoglio, Marsilio, candidato al Premio Strega). Ponzio, nato a Brasov, viene venduto dalla Romania di Ceausescu alla Germania federale in quanto «sassone» e sul treno incontra Sieglinde, sensuale e grassissima padrona di una gatta persiana perfida, Fiocchetto di Neve. In ventiquattr'ore i due si sposano, in quello stesso lasso di tempo nasce l'ossessione di Ponzio: scoprire la propria origine. La scoprirà (o almeno crede) in un trovatore, Pons de Chapdeuill, il cui albero genealogico arriva fino a Giorgio I d'Inghilterra e a Winston Churchill. Un nome del quale, dice Pressburger, «esistono 17 versioni». Sarà anche per questo che della sua ossessione non riesce a liberarsi, nonostante il girovagare per il mondo e le biblioteche sotto lo sguardo della spia Negrescu, «compilatore» ufficiale del libro - «una eredità del Don Chisciotte». Il nome invece è un omaggio ai trovatori «e a Moby Dick, che era un capodoglio». Insomma un romanzo umoristico, picaresco, complesso, surreale. «È una storia vera, sa?» dice Pressburger, il quale a sua volta qualche anno fa si è appassionato alla genealogia di famiglia, scoprendo legami con Heine e Marx («La comunità ebraica di Pressburg, come si chiama oggi Bratislava, era molto piccola: tutti erano imparentati...»). Nato a Budapest nel '37, fuggito a Roma nel '56, vive a Trieste da trent'anni. Il 21 aprile ne compirà ottanta.

Che cosa è vero?

«La vendita alla Germania da parte della Romania. Conosco bene uno a cui è successo, un omone grande e grosso, e anche la moglie, una tedesca molto grassa...».

Nel romanzo ci sono la musica, la religione, la filosofia, la letteratura, l'archeologia, la paleontologia, perfino la zoolinguistica. Come si scrive un libro così complesso?

«Nella mia vita mi sono occupato di tutte queste cose, e anche di altre che non ci sono, come le scienze biologiche. È la curiosità a tenerle insieme».

Quanto ha impiegato?

«Quattro-cinque mesi. Mi sono meravigliato anch'io, però ho fatto un tirocinio. Nei due anni precedenti mi sono dedicato fortemente alla lettura del Don Chisciotte e di Gargantua e Pantagruele. Una volta Dostoevskij teneva in mano una copia del libro di Cervantes e disse: Dio ha creato il mondo per questo. Comunque io leggevo senza pensare che avrei scritto».

E poi?

«Mi è saltato in testa che, nonostante opere grandiose della fantasia, come la Divina commedia o l'Orlando furioso, nella letteratura italiana mancava un romanzo di quel genere, che parlasse della nostra epoca e delle sue ossessioni».

Come si crea un romanzo umoristico?

«Ho fatto tanto teatro, e anche allegro. L'autore di opere liriche che più ho messo in scena è Rossini, un maestro, in questo, ineguagliabile. E poi Goldoni e Cechov, che è un autore comico, anche se sempre un po' distorto».

Le caratteristiche del romanzo umoristico?

«Il paradosso. L'assurdo. Il leggero: cercavo la leggerezza in modo spasmodico, anche nelle espressioni. Da giovane mi colpì una frase di Elsa Morante: Io voglio cercare soprattutto questo: la leggerezza. Tutti gli scrittori più pesanti e tormentati credo la cerchino».

Ha conosciuto la Morante?

«Sì, quando ero a Roma, me la presentò Cesare Garboli. Mi ricordo la sua mano, di una fragilità estrema».

Perché i riassuntini all'inizio di ogni capitolo?

«Il romanzo del Seicento è fatto così. Un altro scrittore molto presente nel sottosuolo è Joyce, per l'uso della lingua, e perché anche lui era molto scherzoso».

Nell'Introduzione dice che ci sono scrittori interessati ancora al contenuto.

«Ci sono libri che si preoccupano del contenuto e del significato, e non solo di vendere. Oggi si cerca solo il bestseller, ma non come il Don Chisciotte, che fu un bestseller grandioso: solo il primo anno vendette centomila copie».

Perché dice che lo scrittore è diverso dallo storyteller?

«Gli storyteller sono quelli che detesto. Vogliono raccontare una storia, riferirla e basta; e in essa ci devono essere gli ingredienti più bassi per compiacere il pubblico poco esigente. Lo scrittore vuole compiacere il pubblico ugualmente, ma ha da dire qualcosa, che non necessariamente passa attraverso la superficialità e il vuoto».

Chi le piace fra gli autori di oggi?

«Di oggi? Molto pochi. Di ieri... Kafka è il mio idolo, un senso dell'umorismo incredibile. Lo considerano pesante, invece se c'è uno che ha raggiunto la leggerezza è lui».

Nelle quasi 450 pagine del romanzo ci sono una ballata, una fiaba, Cola Pesce nella versione di Calvino, lettere, saggi di letteratura e di filosofia. Perfino un'opera lirica.

«Prêt-à-porter, su un famoso stilista ucciso. Un musicista mi aveva chiesto un libretto e io l'avevo scritto, poi l'opera non si è fatta più».

Che significato ha questa varietà di generi?

«Il rifiuto dello storytelling: non una narrazione di tipo realista».

Nei saggi parla molto della lingua.

«È uno dei temi dei miei ultimi libri, come Il sussurro della grande voce: come un bambino cambia lingua, che cosa avviene nella sua interiorità».

Che cosa succede?

«Cambia la sua mente. In quel libro racconto anche la fuga coi miei due fratelli da Budapest nel '56. Siamo arrivati al confine su un camion, poi abbiamo proseguito a piedi nei boschi, di notte. La guida e la guardie di confine ci hanno preso tutto. Siamo riusciti a raggiungere un paesino e poi Vienna, dove siamo andati all'Ambasciata italiana».

Come mai?

«Mio fratello gemello studiava Lingua e letteratura italiana all'università. Lui andò a Parma, io a Roma all'Accademia di arte drammatica».

Poi si mise a lavorare?

«Sa chi mi aiutò a guadagnare qualche soldo? Andrea Camilleri. Era assistente del professore di Regia all'Accademia, lavorava già alla Rai e mi introdusse al Terzo programma».

Lei parla sette lingue. Nel libro quante ne usa?

«Una quindicina. Il plurilinguismo serve a spezzare un flusso, che il lettore crede sia eterno e unico».

È anche la messa in atto di quello che sostiene, che la verità e il valore letterario di un'opera non stiano solo nella lingua?

«Sì. Per esempio, Svevo non scriveva un bell'italiano, eppure il suo è un libro grandissimo, quasi inarrivabile. Perché non tutto è nella lingua: il carattere dello scrittore passa attraverso un insieme di componenti della narrazione come la bonomia, l'incredulità, lo scavalcamento degli schemi».

Joyce è stato un modello anche in questo?

«Sì, lui ne usa 42... Però era un po' uno Schwindler, che in yiddish è un truffatore: prendeva dai vocabolari. E questo essere così truffatore fa parte della sua grandezza».

Che cosa succede nella «metamorfosi linguistica», quando un autore scrive in una lingua non sua?

«Che poi è il mio caso, anche se ormai parlo meglio l'italiano dell'ungherese. L'uso corretto della lingua può essere appreso; ma quello stato emotivo, quella eccitazione che un bambino prova mentre impara una parola, dopo è irrecuperabile».

Si possono ottenere lo stesso grandi risultati?

«Proprio quell'incertezza dà qualcosa di particolare agli scrittori non di madrelingua. Come Beckett. Io comunque ho cominciato con le traduzioni».

Come mai?

«Su istigazione di nostro padre, che la domenica ci faceva fare delle gare di traduzione, con un premio in denaro. Così ho iniziato a tradurre le poesie di Heine, i sonetti di Milton, Goethe, Pascoli, Leopardi».

Se dovesse scegliere un libro?

«La Bibbia».

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