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Il kapò turco redento dagli armeni

Gli eroi solitari che hanno sfidato genocidi e pulizie etniche armati solo di umanità

Di certo aveva un sacco di difetti. Beveva e molto. Fumava, giocava d’azzardo, perdeva spesso, non aveva scrupoli. Per questo era facile comprarselo, corromperlo. Perché aveva sempre bisogno di soldi. Un omino mediocre che non piaceva a nessuno. E che adesso odiano anche i suoi. Naim Bey era responsabile del campo profughi di Meskene dove i turchi radunavano migliaia di armeni prima di spedirli alla morte, attraverso lunghe marce verso il nulla. Era uno dei più duri all’interno del Comitato di deportazione. Perché, pensava, la patria era sacra e nessuno poteva metterla in pericolo. E gli armeni lo erano. Era il 1915, prima guerra mondiale, e i turchi avevano un terrore folle che gli armeni che vivevano nel loro territorio potessero allearsi con il nemico russo e condannarli alla sconfitta. L’ordine del governo fu spaventoso: sterminateli tutti. Un milione e mezzo di armeni morirono di fame e di malattia durante le marce della morte, altri finirono massacrati dalla milizia curda e dall’esercito ottomano. Quello che oggi le autorità turche si rifiutano di chiamare genocidio. Naim Safa, che era il vero nome di Naim Bey (bey significa «signore» in turco), era uno di quei macellai. Ma un giorno qualcosa cambiò. Nascondendo al governatore la reale provenienza di centinaia di sfollati riuscì, per esempio, a evitare un destino orrendo a decine di famiglie cristiane. Rischiò il posto e la vita per riuscirci, ma per la storia è un eroe maledetto che nessuno vuole. Né i turchi che lo considerano un traditore, né gli armeni che lo accusano di averle salvate quelle vite, ma a pagamento, per saldare i debiti di gioco. Naim Bej non esiste.

Che è peggio di morire.

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