Visse 51 anni come Cavour e come lui nacque a Torino e nella costruzione dellItalia ebbe ruolo pari al suo. Ma nella morte il loro destino fu opposto. Il conte Benso lasciò questo mondo allapice della gloria. Il Nostro se ne accomiatò in disgrazia. La caducità delle umane cose aveva in un lampo ridotto in cenere la sua immensa fama.
Era così in declino che Cavour, il quale solo due anni prima si sarebbe inchinato al suo passaggio, azzardò unimpertinenza dopo il loro ultimo incontro a Parigi. Uscito dal modesto appartamento, Rue de Parme, confidò a un amico: «È un bambino di genio. Sarebbe un grande uomo, se avesse del senso comune». Era il settembre 1852. Un mese dopo, lesule era morto.
La fine improvvisa lo colse di notte. Fu la cameriera a accorgersene lindomani. Entrata per le pulizie, vide labate ginocchioni, a metà tra il letto e la porta, come se avesse cercato di uscire per chiedere aiuto. Aveva un occhio lacerato per chissà quale maldestro tentativo di trovare la strada. Per il resto, stanza intatta. Spartana come era stato il suo inquilino durante lintera esistenza. I libri sparsi di ogni genere facevano intuire quale onnivoro lettore fosse stato il defunto. Le pile di fogli manoscritti e i volumi allineati di cui era autore, rispecchiavano la feconda creatività in cui era vissuto.
La modestia delle origini lo condannava allanonimato. Lingegno lo innalzò sopra il destino. A cinque anni rimase orfano di padre, un piazzista di seta. Il frugolo fu preso sotto tutela dalla marchesa presso la quale la madre lavorava come guardarobiera. La nobildonna lo affidò ai dotti preti che bazzicavano la sua casa. Il Nostro fece tesoro e a 23 anni era dottore in teologia. A 25, ordinato sacerdote, fu presentato ai Savoia dalla marchesa e divenne cappellano di corte.
Le sue inclinazioni erano filosofiche e letterarie. Giovanetto aveva scritto un bizzarro poemetto su una famiglia di grilli, La grilleide. Malfermo di salute, aveva spesso sbocchi di sangue che, forzando la glottide, gli dettero una caratteristica voce cavernosa. La vita sedentaria sembrava fatta apposta per lui. Si fece invece prendere dalla fregola patriottica. Corrispose con Mazzini e si entusiasmò per la Giovane Italia. «La vostra causa è giusta... Noi ci stringeremo alla vostra bandiera e grideremo, Dio e il Popolo», scrisse al genovese. Poi aderì a un movimento simile, quello dei Veri Italiani, dimettendosi per coerenza dallincarico a corte. Finì nel modo peggiore. Fu arrestato e patì cinque durissimi mesi di carcere senza processo, prima di essere cacciato dal Piemonte. Lesilio, tra Parigi e Bruxelles, durò 15 anni tondi. In queste precarie condizioni, trovò però la sua strada. In Belgio scrisse il libro che doveva farlo acclamare dallItalia intera e portarlo alla sua breve ma strabiliante carriera politica.
Premessa dellopera era che «LItalia è stata la più grande Nazione» e poteva rinverdire il primato se gli italiani ritrovavano la concordia. Per farlo, dovevano però rinunciare alla «demenza» dellunità che, divisi comerano ormai da secoli, li avrebbe messi luno contro laltro. Ecco allora la strabiliante proposta: una Federazione di Stati - dal Regno di Savoia alle Due Sicilie - con a capo, primus inter pares, il sommo pontefice, «Doge e Gonfaloniere della Confederazione italiana». Leco fu immensa, lentusiasmo alle stelle, i dissensi isolati. Ma severi. Pietro Giordani: «Un libro pazzo di quellipocrita prete». Luigi Carlo Farini: «Tutto ledificio poggia sul falso». Il già amico Mazzini: «Un coacervo di tutte le stolidezze possibili».
Rientrato in patria nel 1848, labate ebbe accoglienze deliranti. Era lanno delle rivoluzioni italiane e europee. Una personalità nuova con una così vistosa aureola pareva un dono del cielo. In pochi mesi, il Nostro divenne presidente del Parlamento subalpino e poi capo del governo. Si mise subito allopera per realizzare la Confederazione, ma commise al primo passo un errore fatale, da analfabeta politico. Poiché il granduca di Toscana, Leopoldo II, cacciato a furor di popolo, era però un tassello essenziale della sua utopica Federazione, il Nostro decise linvio di truppe per restaurarne il trono. Un atto reazionario, estraneo ai tempi. Dalloggi al domani, labate cadde in disgrazia, decadde dagli incarichi e riprese la via di Parigi. Il soggiorno in patria era durato meno di un anno.
Il secondo esilio fu definitivo. Era ormai screditato. Scrisse ancora unopera biliosa verso lItalia in cui diceva il contrario di quanto sostenuto in precedenza. Ma soprattutto si accapigliò con Mazzini nel modo più avvilente. A iniziare fu il genovese, anche lui un fegatoso, che dette allesule del «faccendiero dellespediente e del falso». Ma la reazione fu peggiore. «Si sappia da tutti che Mazzini è il maggior nemico dellItalia», scrisse il Nostro riferendosi alle tante imprese mazziniane finite nel sangue, «...
Pecche veniali. Il tempo le ha sbiadite. Il posto dellabate è ben saldo nel pantheon del Risorgimento.
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