L’addio a Guglielmetti, Il Chechi degli anni Trenta che conquistò l’America

Si è spento ieri a 94 anni il ginnasta che vinse due ori a Los Angeles nel 1932

Filippo Grassia

Nell’ultima immagine pubblica, che risale al 26 novembre scorso, giorno del novantaquattresimo compleanno, Savino Guglielmetti è ritratto mentre consegna la sua tuta del 1932 (in realtà un rifacimento di Ottavio Missoni) a Ottavio Cinquanta, membro del Cio. Oggi quell’indumento fa mostra di sé nel Museo Olimpico di Losanna.
È l’ultimo ricordo di questo straordinario atleta che fino a ieri mattina era il più vecchio olimpionico vivente. Nel 2003 gli aveva affidato questo scomodo testimone il suo amico Leon Stukelj. Da qualche ora non c’è più. E il ricordo si fa struggente come grande è il vuoto che lascia nel mondo della ginnastica italiana e dello sport milanese.
La sua storia sportiva è legata in modo particolare ai due ori vinti nel 1932 ai Giochi di Los Angeles dove si affermò nel volteggio a cavallo e nella gara a squadre. Aveva 21 anni e quindi l’età, la forza, la voglia e il talento per vincere ancora. Ma il fato gli volse le spalle. Un infortunio gli impedì di gareggiare a Berlino nel 1936. E la guerra gli tolse le Olimpiadi della maturità. Ai Giochi di Londra, nel 1948, un giudice egiziano corrotto spezzò il suo ultimo grande volteggio.
Quel giorno la sua aneddotica si arricchì di un curioso episodio che amava raccontare di gusto: «All’inizio pensai che quel tizio avesse sbagliato i conti o avesse preso la paletta sbagliata. Poi mi accorsi che faceva sul serio e mi aveva venduto. Allora compii una specie di salto mortale per catapultarmi oltre il tavolo della giuria e afferrarlo al collo. Ci vollero tre persone per impedirmi di fargli male».
Capita ancora oggi. Lo ricordò a Igor Cassina quando lo chiamammo a premiare il nuovo re della ginnastica italiana: «Per fortuna la giuria ha riconosciuto che sei stato il più bravo».
Di quei momenti resta una foto emblematica: l’uno accanto all’altro il medagliato più antico e più recente di uno sport che da solo significa Olimpiade.
Di lui potevi dire tutto fuorché facesse uso di diplomazia. Alla vigilia degli ultimi Giochi consigliò a Chechi di rinunciare alla convocazione se non si sentiva da medaglia. E Yuri gli assicurò che avrebbe tolto il posto a un giovane solo per ritornare sul podio, fu di parola.
In Federazione disse che ci era arrivato tardi, «potevate chiamarmi prima». In una recente occasione ricordò che lui viveva a Lambrate della pensione di tranviere: «Ai miei tempi lo sport non dava da vivere, ma permetteva di girare il mondo e conoscere la gente». Ammiccando aggiunse anche «qualche bella donna».
Nel cuore gli è sicuramente rimasto il ricordo di Lucia Bosè che, prima di diventare Miss Italia, era sua allieva.
Adesso che non c’è più, il cuore ti si stringe al pensiero di come partecipava a ogni manifestazione organizzata in suo onore: curioso come un ragazzino.
All’ultima ha abdicato. Era lunedì 16 gennaio 2006. Se fosse stato bene avrebbe ricevuto, insieme a Capello, il Premio Giovanni Brera. Era invece prossimo all’ultimo volteggio.


Con lui esce di scena l’ultimo Grande Atleta di una generazione antica che viveva lo sport con semplicità, ma che a perdere non ci stava mai. Lui come il maestro Corrias, una specie di padre. E i compagni Braglia e Neri che sembrano uscire da un dagherrotipo ma erano quasi suoi coetanei. Ciao Savino. Milano ti abbraccia.

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